Pregevoli sculture di arte romana rappresentano gli Uffizi, nei cui depositi erano custodite quando furono colpite dall’alluvione. Ad esse si aggiunge uno dei due immani arazzi di manifattura medicea su cartone di Michelangelo Cinganelli (1617) raffiguranti le Storie di Fetonte, che nel 1966 erano ubicati al pianterreno all’ingresso della Galleria, insieme a ritratti in busto dei Medici e dei Lorena.
Busto con testa di ignoto, detto Macrino
Arte romana
230-250 d.C.
marmo greco microcristallino; alt. del busto cm 68; alt. della testa cm 30
Firenze, Antiquarium di Villa Corsini a Castello, inv. 1914, n. 228
Documentato con certezza agli Uffizi almeno dal 1704 nel terzo corridoio della Galleria, il marmo fu esposto nella Sala – o “Ricetto” – delle Iscrizioni dalla prima metà del XVIII secolo fino al riallestimento lorenese degli anni Ottanta del Settecento. L’identificazione con Marco Opellio Macrino, imperatore dall’aprile del 217 al giugno del 218 – attestata per la prima volta nel Ristretto compilato da Giuseppe Pelli Bencivenni nel 1783 (BGU, ms. 463, 1, Inserto III, Busti Antichi, f. 17r, n. 80) e rivelatasi poi errata – determinò il ritorno del busto nel terzo corridoio nella “serie de’ Cesari in marmo” allestita nei corridoi da Luigi Lanzi con la volontà di creare un nucleo collezionistico tale da rivaleggiare con l’analoga raccolta dei Musei Capitolini (si veda al riguardo Paolucci 2011). In seguito, tra il 1953 ed il 1954, il ritratto fu spostato presso l’Opificio delle Pietre Dure, per poi tornare nei depositi degli Uffizi, dove si trovava al momento dell’alluvione del 1966. Condotto l’anno seguente a Palazzo Davanzati, il marmo fu sottoposto ad un’accurata pulitura cui seguì un più incisivo intervento nel 1972 presso le Reali Poste degli Uffizi, che vide la rimozione del cemento che riempiva le fessurazioni nel busto e nel collo ed il rifacimento delle stuccature (AOPD, GR 7661). Ritornato nei depositi degli Uffizi, il cosiddetto Macrino ne riemerse nel 2011 per una esposizione temporanea, in occasione della quale conobbe un successivo intervento di restauro che, al di là di due microstuccature presso l’orecchio sinistro ed il naso, ha comportato la rimozione di strati di natura cerosa ed oleosa (AGRU, 10304). Recentissimo (2015) è infine il trasferimento presso Villa Corsini, in deposito temporaneo. Il naso ed il padiglione auricolare destro sono attribuibili a moderno restauro. Si individuano alcune piccole scheggiature sul padiglione auricolare sinistro ed una fessurazione che, dalla base del collo, percorre il busto verticalmente. Il busto antico, già definito da Guido Achille Mansuelli non pertinente alla testa, potrebbe in realtà esserlo, dato il medesimo tipo di marmo impiegato e la coincidenza delle linee di frattura irregolari, come già rilevato da Lorenza Camin. Le labbra serrate e le rughe tra le sopracciglia e sulla fronte danno al volto dell’uomo maturo un’espressione austera e concentrata di carattere realistico, mentre lo sguardo è reso ancora più intenso dalla notazione delle iridi e delle pupille, ottenute con due minuti solchi concentrici. La toga, con il balteo ripiegato più volte a formare una fascia che passa attraverso il petto, ripropone il modello della toga contabulata, elaborato in età antonina ma qui rivisitato secondo una variante – caratterizzata da un aumento delle pieghe dell’umbo – che si riconduce più specificamente all’età severiana (Goette 1990, p. 66, tav. 52). I peculiari aspetti stilistici dell’opera, insieme al dettaglio della frangia definita da un nitido solco arcuato verso il basso, trovano confronto in due ritratti del Liebieghaus Museum di Francoforte (rispettivamente, Bol 1983, pp. 250-252, n. 80 e pp. 258-261, n. 83) datati agli inizi del III secolo d.C., orizzonte cronologico che è possibile estendere anche al ritratto in esame, tanto per il realismo dei tratti ed il carattere intenso dello sguardo quanto per la ricerca di effetti plastici e chiaroscurali nella capigliatura e della barba, giocati su di una definizione analitica delle singole ciocche.
Alessandro Muscillo
Bibliografia: Mansuelli 1958-1961, II, p. 126, n. 166, con bibl. precedente; Wegner 1971, pp. 137, 253; Wegner 1976, p. 120; L. Camin, in Volti svelati 2011, pp. 138-139, n. II.43 (in scheda); A. Muscillo, in Österreichische Erzherzoginnen am Hof der Medici 2016, pp. 136-137 (in scheda).
Bibliografia del catalogo a stampa
Ritratto di anziano velato capite
Arte romana
30-20 a.C.
marmo lunense; alt. cm 69, alt. della parte antica cm 32,5
Firenze, Antiquarium di Villa Corsini a Castello, inv. 1914, n. 367
Il busto è ricordato nel riscontro all’inventario 1769 (AGU, F.a. XIX a 4, n. 188), dunque il suo ingresso agli Uffizi si può collocare tra il 1769 ed il 1784. Il ritratto è stato identificato nel “busto di un vecchio velato” ricordato dal Ristretto compilato da Pelli nel 1783 (BGU, ms 463, 1, inserto III, Busti antichi, p. 21, n. 14), del quale si ricorda la provenienza “da Pitti”. Il marmo fu collocato nella Sala delle Iscrizioni, sul terzo corridoio, dove Lanzi lo descrive come ignoto “con un lembo di toga in capo, sia per insegna di sacerdozio, sia per memoria di qualche fatto” (Lanzi 1782, p. 86). Il ritratto rimase nella sala fino allo smantellamento della stessa nel 1919 (Muscillo 2016, p. 111), per poi essere posto nei depositi, dove Guido Achille Mansuelli ancora lo ricorda e dove fu investito dalla furia dell’alluvione del 1966: quello che l’anno seguente arrivò a Palazzo Davanzati era un marmo in pessime condizioni, letteralmente impregnato di nafta a causa della friabilità della superficie. Alla pulitura si sarebbe affiancato il rifacimento
delle stuccature e delle integrazioni non marmoree precedenti: unica eccezione il volto che, stando alla scheda di restauro, su disposizione dell’allora direttrice della Galleria Luisa Becherucci, sarebbe stato lasciato privo di stuccature (AOPD, GR 5032). Nel 2011 il marmo – ancora conservato nei depositi – fu nuovamente restaurato: a dispetto di quanto attribuito alle decisioni della Becherucci, le osservazioni preliminari hanno rilevato tracce di malta anche sulle profonde fenditure presenti sul viso, ed in più i prodotti usati come consolidanti e protettivi nel 1967 avevano prodotto nel tempo delle macchie color giallo paglierino. Nel corso del restauro più recente, all’interno di una lesione sul retro del capo, sono stati scoperti dei microrganismi autotrofi, segno di una precedente collocazione del marmo all’esterno, rimossi con l’ausilio del bisturi. Al periodo di questo intervento si data anche la messa in opera dell’attuale peduccio, elemento di cui il ritratto risultava privo (AGRU, 10297). Posta presso l’’Uscita Buontalenti’ al piano terreno del complesso vasariano, l’opera è stata infine recentemente (2015) trasferita presso l’Antiquarium di Villa Corsini a Castello, in deposito temporaneo.
Ad integrazione moderna sono attribuibili il naso, il velo nella parte sinistra fino all’altezza del lobo dell’orecchio, il busto panneggiato ed alcuni minuti tasselli. Si notano abrasioni sulla fronte ed in corrispondenza delle sopracciglia e delle labbra, oltre alle già ricordate profonde fenditure, dovute forse alla natura stessa del marmo, che solcano la parte sinistra del volto.
Raffigurante un personaggio maturo dal volto segnato, il ritratto si inserisce nel nutrito gruppo di effigi di privati che, tra la fine dell’età repubblicana e la prima età imperiale, manifestano analogie con la ritrattistica di Cesare: in particolare, il marmo in esame si avvicina al tipo del Cesare Pisa-Chiaramonti (C. Valeri, in Ritratti 2011, p. 253, n. 4.1), per l’analoga struttura del cranio, il modellato asciutto ed i chiaroscuri decisi che portano nel realismo dell’immagine un effetto patetico (cfr. il tipo XI trattato in Megow 2005, pp. 99-107). La presenza del velo calato sul capo sembra ricollegare il personaggio a pratiche sacrali, che l’inquadramento proposto suggerisce di considerare connesse con il culto imperiale (cfr. Fejfer 2008, p. 397). Contemporaneo al marmo fiorentino è un altro ritratto velato capite del Museo Chiaramonti (C. Valeri, in Ritratti 2011, p. 258, n. 4.5), caratterizzato da un’analoga ricerca di realismo condotta attraverso una fitta notazione di rughe chiaroscurate e gestendo con naturalezza le tensioni e i rilassamenti che la pelle impone all’età avanzata. Sulla base dei possibili confronti – tra i quali è possibile ricordare i ritratti tramandati da rilievi funerari tardorepubblicani (Kochel 1993, p. 123, F7, tav. 36 a-b; p. 143, H9, tavv. 54a, 55a), i cui volti realistici tendono ad un teatrale effetto chiaroscurale –, è possibile datare il ritratto fiorentino tra il 30 ed il 20 a.C.
Alessandro Muscillo
Bibliografia: Mansuelli 1958-1961, II, p. 41, n. 28, tav. 27, con bibl. precedente; F. Paolucci, in Volti Svelati 2011, pp. 60-61, n. II.4 (in scheda).
Bibliografia del catalogo a stampa
Ritratto di Faustina senior tipo ‘Dresda’
Arte romana
metà del II secolo d.C.
marmo lunense; alt. cm. 80, alt. della parte antica cm 31
Firenze, Antiquarium di Villa Corsini a Castello, inv. 1914, n. 346
La tardiva identificazione della donna ritratta con la moglie dell’imperatore Antonino Pio (138-161 d.C.) rende complesso ricostruire un’articolata storia collezionistica dell’opera, attestata con certezza agli Uffizi almeno dal 1914, anno in cui l’Inventario di Galleria la registra sullo “Scalone che conduce a Pitti”. In realtà il riconoscimento della Faustina senior nel ritratto fiorentino risale almeno alla fine degli anni Trenta del Novecento (Wegner 1938, p. 155), ma, complice il mancato inserimento nel catalogo di Guido Achille Mansuelli – un lapsus dovuto forse ad una posizione defilata dell’opera nei depositi –, il marmo sarebbe scomparso per lungo tempo dagli orizzonti del mondo accademico, risultando non rintracciabile (così in Fittschen, Zanker 1983, p. 18, nota 5). L’alluvione del 1966 sorprese la Faustina ancora nei depositi: è noto dai documenti che l’opera fu trasportata a Palazzo Davanzati e che subì una intensa pulitura nel luglio dell’anno seguente (AOPD, Fondo Galli, Pal. Dav. 128). Dopo gli interventi post-alluvione, il ritratto sarebbe tornato nei depositi della Galleria, da cui sarebbe riemerso solo nel 2011 per un’esposizione temporanea, in occasione della quale tornò ad essere restaurato (AGRU 10278). In seguito il marmo fu esposto per alcuni anni al piano terreno del palazzo degli Uffizi, presso la cosiddetta ‘Uscita Buontalenti’, prima di essere provvisoriamente trasferito a Villa Corsini per esigenze di allestimento interno (2015).
La testa ed il collo sono antichi ed impostati su di un busto panneggiato di moderna fattura. A mano postantica si deve anche il naso, ed ulteriori restauri dovevano in passato essere in opera presso le orecchie, la parte terminale dei lobi e il bordo dei padiglioni auricolari, come pure in più punti del busto, le cui fratture appaiono regolarizzate. Abrasioni di variabile ampiezza interessano le labbra e la parte anteriore della capigliatura.
La complessa acconciatura, dai capelli portati sul retro in un’elaborata spirale, che risalgono verso la sommità del capo in quattro spire di trecce, è un’evoluzione delle pettinature ‘a turbante’ già attestate a partire dalla prima età adrianea: è proprio con Faustina senior che il ‘turbante’ di trecce avvolte si fa più stretto e regolare, formando una ‘torre’, rastremata verso l’alto (cfr. Flisi 1989, p. 39, nota 26 e Buccino 2011, pp. 375-376). Nello specifico il ritratto fiorentino afferisce al tipo ritrattistico dell’imperatrice detto ‘Dresda’, dall’attuale collocazione della replica più significativa presso l’Albertinum (F. Sinn, in Knoll, Vorster 2013, pp. 320-324, n. 72; sul tipo cfr. Fittschen 1977, pp. 81-84 con elenco delle repliche e Fittschen, Zanker 1983, pp. 13-20, con aggiornamenti a p. 18, nota 5), caratterizzato da una frangia appiattita, scandita in due simmetriche bande ondulate ed intrecciate, e da due ciocche parimenti simmetriche, attorcigliate su se stesse al di sopra della fronte, elemento che ha meritato al tipo anche l’altra denominazione di Stirnhaarrosetten (“ciocche in forma di rosette sulla fronte”). Un ulteriore dettaglio caratteristico del tipo è la presenza di una treccina che corona il capo, sostituita in alcune repliche da un cordone di capelli arrotolati, semplice o doppio.
Wegner considerava il tipo ‘Dresda’ tardo e forse addirittura postumo, legato alla consacrazione post mortem dell’imperatrice (Wegner 1938, pp. 26-27), ma l’opinione generalmente più diffusa nella critica di oggi è che sia stato elaborato nel 138 d.C., in occasione del conferimento a Faustina del titolo di Augusta oppure dell’attribuzione ad Antonino Pio del titolo di Caesar (Fittschen, Zanker 1983, p. 18; Flisi 1989, p. 44).
La resa appiattita delle fasce di capelli sulla fronte dell’esemplare fiorentino costituisce un elemento in comune con le repliche conservate a Dresda, Mantova e Torino, che tra quelle a noi note sono considerate le più vicine all’archetipo, a causa dell’intima coerenza reciproca nella resa di dettagli anche minuti (Flisi 1989, p. 37). Dagli esemplari suddetti la Faustina degli Uffizi si differenzia tuttavia per un trattamento più morbido dei tratti somatici, sia pure rappresentati nella piena fedeltà fisionomica e nel realismo di un’età non più giovane: è lecito ipotizzare che anche i ritratti marmorei dell’imperatrice manifestino la tendenza riscontrata nelle effigi monetali, ove la critica ha notato una maggiore definizione e durezza dei lineamenti in quelli realizzati in vita ed una sorta di idealizzazione in quelli realizzati dopo la morte (Flisi 1989, p. 38 e Schneider 2004, p. 313). Per il ritratto in mostra è dunque ragionevole pensare ad una realizzazione dopo il 141 d.C., anno di morte dell’Imperatrice, ma la vicinanza all’archetipo evocata dai confronti citati suggerisce un inquadramento che non vada oltre gli anni centrali del secolo.
Alessandro Muscillo
Bibliografia: Wegner 1938, p. 155; Fittschen, Zanker 1983, p. 18, nota 5; F. Paolucci, in Volti svelati 2011, pp. 110-111, n. II.29 (in scheda).
Bibliografia del catalogo a stampa
Statuetta di putto con noci
Arte romana da prototipo ellenistico
fine II - inizi III secolo d.C.
marmo mediocristallino; alt. cm 90
Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture, inv. 1914, n. 166
La statuetta è attestata in Galleria dagli inizi del XVIII secolo, esposta nel terzo corridoio, per poi essere ricordata nella Sala – o “Ricetto” – delle Iscrizioni dagli inventari del 1753 e del 1769. Collocata a partire dagli anni Ottanta del Settecento nel cosiddetto ‘salotto d’ingresso’, essa ricomparve in seguito di nuovo nel terzo ed infine nel secondo corridoio. Già negli anni Cinquanta del Novecento – come registrato da Guido Achille Mansuelli – la scultura non era esposta: l’alluvione del 1966 colse l’opera nei depositi della Galleria. La superficie assai disintegrata portò il marmo ad assorbire una grande quantità di nafta, che, nonostante i ripetuti interventi, non è stato possibile rimuovere del tutto: ancora oggi risultano visibili delle tracce brunastre al di sotto del mento e presso il collo, come pure in corrispondenza delle caviglie, sotto le ginocchia e nell’interno coscia lungo il tronchetto posto dietro la gamba destra a fare da puntello. L’intervento avrebbe comportato anche la ricostruzione di un piccolo tassello nella capigliatura (AOPD, GR 5294), attualmente non rintracciabile. Ancora oggi il Putto è al di fuori del percorso espositivo, essendo collocato presso il cavalcavia che unisce il Palazzo Vecchio agli Uffizi.
La testa è raccordata al corpo da alcuni tasselli ai lati del collo: il naso e parte dell’arcata sopracciliare destra sono attribuibili a moderno restauro. La resa della parte frontale della capigliatura, caratterizzata da un esteso ricorso al trapano a violino, unita ad una lavorazione appena sbozzata della parte posteriore, lascia intendere un’originaria fruizione da un punto di vista eminentemente frontale. Sul corpo risultano invece modernamente reintegrati il pene ed i testicoli, le gambe da sotto il ginocchio e la base – compresa la parte inferiore del tronco –, realizzati in un marmo compatibile con quello della parte antica. Un qualche errore nel calcolo delle misure degli elementi da reintegrare ha portato a realizzare al di sotto di ciascun piede una sorta di elemento di raccordo con la base sottostante. Sull’orlo anteriore della veste rimane traccia di un’integrazione oggi perduta. La parte immediatamente sottostante al ginocchio destro, insieme alla parte corrispondente della veste e del sostegno retrostante, risulta antica e ricomposta. La lavorazione del retro appare appiattita ed approssimativa, quando non incongrua, com’è possibile notare nel trattamento del panneggio che, sovrapponendosi ai glutei, vi aderisce al punto da definirne l’anatomia in modo inverosimile.
La statuetta raffigura un fanciullo dai capelli lunghi fin quasi alle spalle, nell’atto di volgere verso la propria destra il capo e lo sguardo, mentre le mani tengono sollevato un lembo della veste a contenere delle noci, lasciando nuda la parte inferiore del corpo. A testimoniare il successo di tale figurazione in età romana sono oggi una serie di repliche, tra le quali le più vicine all’esemplare in esame risultano quella del Museo Chiaramonti (Liverani 1987, pp. 43-44, fig. 16), con qualche variante, soprattutto nella posizione della testa, e quella, oggi dispersa, un tempo nella Collezione Pamphilj (B. Palma, in Calza et. al. 1977, pp. 85-86, n. 101) e nota da una stampa di Dominicus Barriére realizzata tra il 1653 ed il 1659 – edita in De Rubeis s.d., tavola non numerata (Calza et. al. 1977, tav. LXVI). Mansuelli riporta inoltre un’altra replica al Museo Capitolino (Stuart Jones 1912, pp. 151-152, n. 31, tav. 43) ed una al Museo Chiaramonti (ibidem). L’iconografia, destinata dalla sua stessa grazia a contesti decorativi come parte di scene di genere, appare derivata da un tipo ellenistico, variamente riletto: un utile confronto è offerto infatti da una statuetta acefala del Museo Archeologico di Rodi (Bobou 2015, p. 156, n. 102), che, sia pure con qualche minuta variante, presenta un atteggiamento ed un’impostazione analoghi a quelli del marmo fiorentino. Il tipo del fanciullo, che con un movimento assai spontaneo si alza la veste a contenere frutti o uccelli o simili, mentre questa scivola dalla spalla sinistra, si presta con le sue possibili declinazioni ad una grande varietà di soggetti e di impieghi: alcune di queste raffigurazioni sono state ad esempio ritenute rappresentazioni di genietti stagionali, recanti in grembo frutti caratteristici di un certo periodo dell’anno – si veda ad esempio l’esemplare di Villa Corsini a Castello (E. Polito, in I marmi antichi 2004, n. 22) – mentre, con l’aggiunta di un sacchetto nella mano sinistra levata, il tipo è stato riadattato quale rappresentazione di Hermes fanciullo – è il caso ad esempio della statuetta di Schloss Erbach, ritenuta la replica più significativa di un vero e proprio tipo statuario, di cui in Fittschen 1977, pp. 11-15, n. 2, con elenco delle repliche. L’esteso uso del trapano nella capigliatura, la resa delle pupille incise e la rigidità geometrizzante delle pieghe della veste suggeriscono una datazione tra la fine del II e gli inizi del III secolo.
Alessandro Muscillo
Bibliografia: Mansuelli 1958-1961, I, pp. 156-157, n. 128, figg. 129 a-b, con bibl. precedente.
Bibliografia del catalogo a stampa
Arazzo di manifattura medicea
Firenze, manifattura medicea
cartone: Michelangelo Cinganelli
(Settignano 1558 circa – Firenze 1635)
tessitura in basso liccio: Guasparri Papini
(Firenze? 1540 circa-1621).
Fetonte chiede a Febo di guidare il carro del Sole
1617
trama: lana, seta, oro e argento dorato; ordito:lana, 7-8 fili per cm; cm 456 × 477
Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture, Deposito arazzi, inv. Arazzi, n. 51
Fetonte chiede a Febo di guidare il carro del Sole è un arazzo che appartiene alla serie delle Storie di Fetonte (opera della manifattura fiorentina, i cosiddetti “Creati Fiorentini”) ed è stato tessuto da Guasparri Papini, capo arazziere dell’arazzeria granducale dal 1591, su disegni preparatori di Michelangelo Cinganelli, pittore della scuola di Alessandro Allori e cartonista della stessa arazzeria dal 1614 al 1635. Tali Storie sono state replicate cinque volte, tre su cartoni di Allori e due di Cinganelli e proprio una di queste (derivante dai cartoni di quest’ultimo) è stata intessuta per la granduchessa Maria Maddalena d’Austria, moglie di Cosimo II dei Medici, che la volle per abbellire il suo appartamento a Palazzo Pitti.
Fetonte, secondo Le Metamorfosi di Ovidio, decise di recarsi da Febo, suo padre, per chiedergli di poter guidare il suo Carro. Nella luce abbagliante della stanza del dio del Sole, il giovane, guardandosi attorno, riconosce le personificazioni delle quattro stagioni: la Primavera, con il volto candido e le guance rosa, i denti come perle e le labbra come coralli, colta nell’atto di spargere fiori; l’Estate con la testa cinta da spighe di grano dorato, tiene in mano uno specchio con cui riflette la luce e il calore dei raggi solari; l’Autunno, uomo maturo con una ghirlanda d’uva, ghiande, fichi e castagne; infine l’Inverno, posto dietro al trono di Apollo, è insieme al Tempo, uomo alato e che tiene tra le mani un elemento architettonico (quest’ultimo è presente in quanto indica la cui la ciclicità delle stagioni).
In questo arazzo i soggetti descritti dal poeta latino, e affini alla traduzione dell’Angillara (la Primavera o il Tempo, per esempio, sono immagine puntuale della versione del poema), sono tutti ben identificabili, come in quelli dell’Allori, ma la grande differenza fra i due pittori risiede nella scelta dello stile. L’allievo del Bronzino propose un segno ricco, elegante e raffinato, mentre Cinganelli sembra avvicinarsi a Giulio Parigi, l’architetto granducale, e alle sue scenografie per gli spettacoli della corte, proponendo una linea sintetica seppur di grande effetto. L’ornamento della cimosa (sul quale troviamo la sigla dell’arazziere), che corre attorno alla scena, sembra proprio rievocare la ricchezza, e lo splendore della residenza di Febo, con le cornucopie ricche di frutti della Terra, e sembra esser stata pensata quale supporto scenografico: le due tende aperte permettono di assistere alla “rappresentazione” – un espediente, assieme a quello della pavimentazione a losanghe decorate alternativamente con rombi o cerchi, utilizzato per coinvolgere chi guardava e per dare l’illusione di maggiore spazialità all’ambiente.
L’altro arazzo strettamente connesso a questo è Febo mostra il carro a Fetonte (inv. Arazzi, n. 52), il cui legame non dipende esclusivamente dalla conseguenzialità dell’episodio dovuto alla narrazione ovidiana, ma anche alla loro vicenda conservativa connessa alla tragedia che si abbatté su Firenze il 4 novembre 1966.
I due capolavori di tessitura si trovavano all’ingresso degli Uffizi e sono stati sommersi, seppur nella parte bassa, dal fango e dalla nafta (fig. 1). A ripulire e a riparare questi due oggetti sono stati Alfredo Clignon e sua moglie (restauratori di arazzi e tessuti del Gabinetto Restauri della Soprintendenza), a loro si deve la stesura della breve scheda di restauro in cui lo stato di conservazione dei due è definito “abbastanza buono” e l’intervento si è limitato pertanto alla integrazione di alcune trame, di alcuni brani di tessuto e alla parziale rifoderatura. Tant’è che, a differenza di altre opere conservate sullo stesso piano (un esempio possono essere i cartoni per le Storie di Scipione l’Africano, donati al Gabinetto Disegni e Stampe dal conte Alessandro Gerini e che furono fortemente danneggiati), i due arazzi sono stati riconsegnati alle Galleria già nel giugno del 1967 e poterono esser nuovamente esposti al pubblico ai lati della scala del Buontalenti.
Irene Foraboschi
Bibliografia: AOPD, FC 4; Ovidio ed. 1584, pp. 31- 32; Meoni 1998, pp. 63, 79, 93, 108, 342-348, con bibl. precedente; La galleria degli arazzi 2012, pp. 101-104, con bibl. precedente.
Bibliografia del catalogo a stampa