Jacopo Gelli, nella prefazione ai Duelli mortali del secolo XIX, definiva senza mezzi termini il duello «cosa stupida», poiché «non cancella le ingiustizie; non le vendica; ma quasi sempre ribadisce la calunnia e consacra l’equivoco con una forma convenzionale», quella «cavalleresca». Non ci si poteva, dunque, limitare a produrre dettagliati codici al fine di regolamentare al massimo il fenomeno per limitarlo solo alle vere e proprie questioni d’onore.
Gelli, si è visto, fu l’autore del più fortunato codice cavalleresco italiano. Il passo ulteriore era quello dello studio approfondito del fenomeno per capirne le radici storiche, lo stretto rapporto con la società e l’influenza sulla mentalità. Il tutto senza fermarsi solo al caso italiano o agli aspetti più squisitamente giuridici della questione. Fino ad allora, infatti, la parte del leone nel dibattito sul duello l’avevano fatta i giuristi con opuscoli e trattati.
Alla fine del secolo XIX, nell’epoca del trionfo del positivismo e dei nuovi indirizzi delle scienze sociali, la prospettiva giuridica non era più sufficiente. E neppure quella militare, strettamente legata al ruolo dell’ufficiale inteso come perfetto gentiluomo, votato alla custodia dell’onore. Occorrevano dei dati statistici per dimostrare le dimensioni reali del fenomeno; serviva un panorama degli studi esistenti il più vasto, il più internazionale e il più preciso possibile; si richiedevano opere di sintesi in grado di informare un pubblico non più fatto di soli gentiluomini nel senso tradizionale del termine.
In queste sfide si distinsero in particolar modo l’ex ufficiale toscano, nonché prolifico poligrafo, Jacopo Gelli e il barone fiorentino Giorgio Enrico Levi.