Museo di storia della scienza

All’interno del Museo la notte del 4 novembre 1966 c’era solo la direttrice, Maria Luisa Righini Bonelli, nel suo appartamento al piano terra che si svegliò quando l’acqua aveva raggiunto il mezzo metro d’altezza ed aveva quindi già allagato le cantine. La sua reazione, riferita per lo più in modo romanzato, guadagnò le prime pagine dei giornali di mezzo mondo, che riconobbero in lei un’eroina impavida, simbolo della reazione forte e coraggiosa dei fiorentini. Considerando perduti gli oggetti collocati nel sottosuolo, la Bonelli cercò di mettere in salvo ai piani superiori i pezzi più importanti, scegliendoli fra quelli trasportabili con le sue sole forze; poi, temendo cedimenti che avrebbero reso insicuro l’intero palazzo, si decise a portarne alcuni nei locali dell’attigua Galleria degli Uffizi, percorrendo più volte uno stretto cornicione che collegava fra loro le finestre dei due edifici.

Le settimane che seguirono videro la Bonelli al lavoro con cinque fra i suoi più stretti collaboratori, supportati in modo organico da nove dipendenti degli Istituti di Zoologia e di Astronomia dell’Università di Firenze e anche, in modo più irregolare, da studenti, provenienti per lo più dai licei scientifici della città e dalla Facoltà di Ingegneria, nel difficile compito di setacciare il fango alla ricerca dei più minuti frammenti, che dovevano essere identificati in vista di un lavoro di restauro che si preannunciava lungo e dispendioso.

Da questa lunga “pesca nel fango”, come la definisce spesso la Bonelli nella corrispondenza, risultò che alcuni dei pezzi più importanti e famosi erano stati gravemente danneggiati, ma non perduti: fra questi le cere dello Zumbo e i modelli ostetrici, lo strumentario chirurgico del Brambilla, le stampe di Mascagni, i microscopi di Pacini, i pietrificati del Segato e dello Spirito, gli strumenti ottici inviati da Niceron a Torricelli, il fonografo di Edison.

Nel difficile compito del reperimento di aiuti e di fondi la Bonelli fu aiutata dalla fitta rete di relazioni che aveva costruito a livello internazionale e dalla fama che il Museo di Storia della Scienza si era conquistato negli anni come Museo di nicchia ma di eccellenza: l’istituzione fiorentina poté contare sull’immediata disponibilità in tutto il mondo di studiosi e di associazioni di storici della scienza, promotori di riviste, pubblicazioni e convegni, che si trasformarono in altrettante camere di risonanza per chiedere aiuti, finanziamenti, sostegno nella difficile opera di ricostruzione che si stava allestendo.

La prevalenza dei canali privati basati su conoscenze dirette rispetto a quelli istituzionali spinse la direttrice a riunire tutte le persone che più si erano spese a favore del Museo, non solo in termini economici, ma anche di affetto e vicinanza, in una particolare accademia, l’Accademia degli Infangati, per la quale disegnò un emblema che fece imprimere su cinquecento biglietti e buste che inviò, a titolo di ringraziamento, a tutti gli ‘accademici’.