Nel Museo del Bargello, oltre alle imponenti sculture marmoree e alle terrecotte, venne devastata l’Armeria, qui richiamata dall’esposizione di vari pezzi, fra cui alcuni inediti. Fu questo uno dei pochi nuclei delle raccolte museali fiorentine che, in gran parte, migrò all’estero per il restauro, approdando a Vienna presso la Waffensammlung del Kunsthistorisches Museum, uno degli istituti specializzati in questo settore più all’avanguardia al mondo.
Resti di due armature da cavallo dopo il restauro
1560-1570
acciaio, ferro, ottone, cuoio
1 - 2 Spallacci cm 47,4 × 39,5; inv. n. AM 750
3 - 4 Scarselle cm 27,5 × 30; inv. n. AM 751
5 - Schinieri cm 44; inv. n. AM 751
6 - Spallaccio con cannoni e manopola cm 77 × 53; inv. n. AM 751
La collezione d’armi del Museo Nazionale del Bargello è particolarmente significativa poiché raccoglie le armi provenienti dalle tre grandi armerie medicee fondate nel XVI secolo. Tra il 1773 e il 1780 il granduca Pietro Leopoldo le fece smantellare, ordinando il trasporto delle armi in Fortezza da Basso per essere svendute sul mercato privato. Ne furono trattenute alcune centinaia, perché invendute o di particolare interesse storico e artistico.
Quando il Palazzo del Bargello fu aperto al pubblico nel 1865 come primo Museo Nazionale d’Italia i visitatori, superato l’ingresso, si trovavano nell’Armeria, che occupava due sale del piano terra. Nella notte tra il 3 e il 4 novembre 1966 l’Armeria fu investita dalle acque fino un’altezza massima di 4,20 metri (Berti et al. 1967, pp. 1, 3).
I primi interventi riguardarono il recupero, la pulitura dal fango e il riconoscimento delle armi, al termine dei quali si pose il problema del restauro.
Le armi dei depositi e quelle in cuoio furono restaurate a Firenze in tempi rapidi, mentre quelle che avevano parti in avorio furono inviate a Londra, ma il nucleo fondamentale rimaneva ancora danneggiato, quando giunse l’offerta di restaurarle dalla Waffensammlung del Kunsthistorisches di Vienna. Questo istituto era diretto dal grande oplologo Bruno Thomas, il quale aveva creato uno dei laboratori di restauro specializzati nelle armi antiche più all’avanguardia del mondo, sotto la direzione scientifica di Ortwin Gamber. Nel giugno 1967 il cuore della collezione d’armi partiva per Vienna all’interno di 29 casse: mai una collezione d’armi di tale rilevanza fu così gravemente minacciata e mai era stata trasportata all’estero per interventi di restauro così importanti (Mostra delle armi storiche 1971, pp. 22-24).
Particolarmente difficoltoso fu il preciso riconoscimento dei singoli pezzi delle armature. Come in tutte le armerie ottocentesche, le armature incomplete e mutile furono integrate con pezzi rifatti in stile. Il materiale fotografico scattato fino al 1966 mostra una quantità di armature complete che oggi non esistono più, poiché il lavoro del Boccia e del Thomas non si limitò al solo recupero, ma anche a una selezione finalizzata all’eliminazione dei pezzi integrativi ottocenteschi. Non rimangono molte testimonianze scritte di questo delicato lavoro, ma nei depositi del museo sono state rinvenute due scarselle da corsaletto, inventariate AM 1177, recanti nella parte interna una lettera ‘F’ scritta con uno smalto rosso. Non ci sono molti dubbi che il segno sia stato apposto dal Thomas, poiché dal 1968 al 1969, nel tentativo di risolvere l’analogo problema delle armature ottocentesche dell’Armeria Reale di Torino, appose nel retro di ogni oggetto una ‘V’ per vero sugli originali, ‘F’ per falso sui pezzi ricostruiti e uno ‘0’ per i pezzi privi d’interesse (Dondi 2013, p. 14).
Al Bargello alcune armature furono emendate dai pezzi non originali, con il risultato che oggi in deposito si trovano elementi difensivi afferenti ad armature esposte in vetrina.
Due esempi sono i pezzi qui in mostra.
L’armatura AM 750 appartenne a una guardia a cavallo, forse dei Della Rovere, la cui armeria entrò per intero in quella medicea nel 1631. L’elmo, la goletta, il petto e la schiena sono esposti in Armeria. La mancanza delle manopole e degli arnesi è già segnalata nell’inventario del 1879. È uno dei pezzi andati a Vienna per il restauro e descritto nel catalogo (Mostra delle armi storiche 1971, p. 43), mentre gli spallacci, qui esposti, sono conservati in deposito. Gli spallacci, evidentemente non originali, non furono esposti alla mostra del 1971. La cordonatura è semplicemente incisa, al contrario di quella di petto e schiena; alcune rigature tra le lame fanno pensare a un lavoro probabilmente eseguito intorno alla metà del XIX secolo. Le parti in vetrina presentano una patina superficiale più scura a macchia di leopardo, probabilmente per il trattamento ricevuto a Vienna, di pulitura con tricloroetilene e una soluzione a base di petrolio e di derivati dell’acido solforico per rimuovere la ruggine. Nessuna di queste tracce è riscontrabile sugli spallacci restaurati a Firenze.
Sicuramente dall’Armeria roveresca arrivò l’armatura da cavallo inventariata AM 751, che reca incisa sul petto la “rovere” araldica della famiglia e sulla schiena riporta l’impresa della fiamma tricuspide usata da Francesco Maria II, permettendo di identificarlo come primo proprietario.
Al Bargello sono esposti elmo, goletta, petto, schiena, spallacci, cannoni di braccio e d’avambraccio, cubitiere, manopole e scarselle, il tutto perfettamente coerente, anche se le scarselle sono inventariate AM 746. Il catalogo della mostra del 1971 segnala la manopola destra come aggiunta da restauro integrativo (Mostra delle armi storiche 1971, p. 36). Tuttavia il riconoscimento dei pezzi all’indomani dell’alluvione non deve essere stato semplice. Nell’inventario del 1879 l’armatura è interamente descritta ma scarselle e schinieri sono segnalati come moderni, e le manopole difformi tra loro. Ciò significa che nel XIX secolo la manopola destra non era stata riconosciuta come un’imitazione di quella sinistra. In effetti nel deposito del Museo, sotto il numero d’inventario AM 751, non citati nella scheda del catalogo del 1971, troviamo due scarselle, due schinieri con scarpe e uno spallaccio con cannoni e manopola destri, gli oggetti qui esposti. Questi pezzi, nonostante condividano almeno dal 1879 il medesimo inventario dell’armatura roveresca, presentano differenze che impediscono di afferirle al medesimo insieme.
Le difformità sono evidenti. Le parti originali dell’armatura roveresca, quelle esposte in Armeria, hanno le lame percorse da due solchi eseguiti con bulino profilatore e le cordonature sono forgiate e non incise. Le lame dello spallaccio e delle scarselle conservate in magazzino sono a graffa, contrariamente a quelle dritte originali. Gli schinieri sono ottocenteschi. Decisamente frutto di un restauro integrativo del XIX secolo di pessima qualità è l’insieme di spallaccio, cannoni e manopola: di fatto un falso storico. La forma del cannone d’avambraccio è d’ispirazione orientale, non usuale in Italia. Le manopole, insolitamente unite al cannone, sono fissate internamente anzichè essere un elemento esterno: ciò non solo avrebbe permesso alle lame di infilarsi all’interno dell’avambraccio, ma non avrebbe neanche consentito la rotazione del polso. Le cordonature non sono forgiate ma incise e per tutto il pezzo si scorgono i segni della martellatura.
Non sono state rinvenute sufficienti testimonianze scritte o fotografiche per comprendere con precisione come si presentasse il pezzo prima dell’alluvione. Il Boccia ha identificato con una certa facilità i pezzi integrativi più evidenti, come gli schinieri e i cannoni con manopola destra. Quest’ultima in passato deve aver sostituito l’originale mancante, prima che ne venisse fatta una copia quasi fedele, ma il vago riferimento nell’inventario del 1879 lascia ancora numerosi punti interrogativi aperti.
Marco Merlo
Inediti
Bibliografia del catalogo a stampa
Mazzapicchio e Spiedo-brandistocco
1 - Mazzapicchio
Italia settentrionale
1530 circa
ferro, acciaio, legno; cm 217; inv. n. C 1773
2 - Spiedo-brandistocco
Italia centro-settentrionale
inizio XVII secolo
ferro, acciaio, legno; cm 236; inv. Re 146
Appena fu costitutito, con Regio Decreto del 22 giugno 1865, il Museo Nazionale del Bargello, la preziosa Armeria dinastica, o meglio ciò che ne rimaneva, fu incrementata con collezioni d’armi private su concessione dei proprietari. Le collezioni, a dire il vero poco pregiate, di La Roche Pouchin, Toscanelli, Panciatichi Ximenes e Avondo furono esposte per pochi decenni (con l’unica eccezione di quella La Roche Pouchin, che abbandonò il Bargello solo nel 1923) venendo progressivamente ritirate dagli stessi proprietari. Alla fine dell’Ottocento tuttavia due importanti lasciti per il museo arricchirono anche l’Armeria, e questa volta in modo permanente: l’antiquario lionese Louis Claude Carrand al momento della sua morte, il 21 settembre 1888, lasciò la sua ricca collezione al Bargello, comprendente 279 armi, così come l’ambasciatore italiano a Parigi Costantino Francesco Ressman, deceduto l’8 luglio 1899, donava la propria, che contava 280 armi, alla città di Firenze per essere collocata nel Museo Nazionale. Solo una piccola parte di queste collezioni, per problemi di spazio, fu esposta nell’Armeria quando essa si trovava al piano terreno. Inoltre, gran parte della Collezione Carrand si trovava nella sala detta del Podestà, e qui vi erano due panoplie con alcune armi del collezionista di Lione (Rossi 1932, pp. 8-9), come mostra anche una vecchia fotografia (I 150 anni del Museo Nazionale 2015, p. 54). Allo stesso modo nella sala dedicata alla Collezione Ressman (quella a sinistra, usciti dalla cappella), erano esposte alcune delle armi più pregiate del collezionista (Rossi 1932, p. 10), oggi in Armeria.
Ciò ha preservato dall’alluvione quasi per intero le due collezioni (Mostra delle armi storiche 1971, pp. 20-21), come del resto più della metà delle circa 2012 armi, presenti in Museo al momento dell’alluvione, che erano in deposito.
I due oggetti qui in mostra, uno spiedobrandistocco dell’inizio del Seicento, proveniente dalla raccolta Ressman, e un mazzapicchio di quella Carrand, nel 1966 si trovavano esposti in mezzo alle altre armi in asta. Gli esemplari più lussuosi e più significativi erano collocati nel mezzo della sala, all’interno di rastrelliere circolari, e tra queste (quella più in fondo vicino alla parete come si scorge in una vecchia fotografia), vi era il mazzapicchio Carrand.
La violenza delle acque aveva scaravantato a terra le rastrelliere, tuttavia la maggior parte delle armi in asta non subì danni irreparabili ai ferri, ma alcune aste si ruppero. Gli interventi eseguiti sulle armi in asta inviate a Vienna si concentrarono sulla pulitura e sul recupero delle parti metalliche, in particolore sulle lame decorate, e sul restauro delle aste originali danneggiate. Infatti molte aste erano posticce, e queste furono sostituite senza problemi metodologici. Gli interventi più delicati si ebbero con le armi in asta dotate di parti meccaniche, come i due spiedi da caccia con due bocche da fuoco a ruota inventariate AM 413 e AM 419, o quelle composte da più pezzi, come i due spiedi snodati a forbice, inventariati AM 410 e AM 416 (Mostra delle armi storiche 1971, p. 38). Per le prime fu necessario smontare i meccanismi di accensione e le canne, e molto difficoltoso fu il recupero della preziosa asta originale dello spiedo AM 413, cava con all’interno i tiranti che collegavano le bocche da fuoco, poste alla gorbia, con i grilletti, collocati alla metà dell’asta stessa, che culmina con un puntale al cui interno sono ancora conservati gli utensili orginali per la pulitura del pezzo (Merlo 2014, pp. 74-75). Gli spiedi snodati a forbice invece videro indebolirsi le cerniere che ne consentono la chiusura (tanto che una vite è stata sostituita ancora in anni recenti con una moderna), e anche le gorbie si allentarono, problema ancora non completamente risolto, poiché le aste sono originali e pertanto non è possibile sostituirle.
Questo esemplare di mazzapicchio possiede scure con il dorso appuntato e con la parte interna percorsa da una linea dorata. Al centro è inciso e dorato un fiore a sei petali inscritto in un cerchio. Il robusto blocchetto è quadrangolare da cui hanno origine ai lati due cuspidi a sezione quadra. Al di sotto, nel fronte e nel retro, due bandelle fissate all’asta con quattro chiodi. Bocca del martello rettangolare dentellata; il collo, sempre a sezione quadra, è decorato con una doppia linea dorata con all’interno il fiore a sei petali inscritto in un cerchio. Culmina con una robusta cuspide a quadrello con andamento irregolare: base molto larga, corpo sottile e punta larga.
Il mazzapicchio era un’arma da cavaliere, una delle poche concepita per il solo combattimento appiedato, usata non solo in guerra ma anche nei tornei in campo chiuso, per i quali ben presto si diffusero peculiari tecniche di scherma con quest’oggetto. Molto diffusa in area francese e inglese per tutto il XV secolo, verso la fine del Quattrocento inizia a essere prodotta e usata anche in Italia, in particolare a Venezia e nei territori della Serenissima, dove probabilmente è stato forgiato questo pregievole pezzo. In Italia ebbe quindi vita breve, poichè verso la metà del Cinquecento quest’arma cadde in disuso.
Non figura nel catalogo delle opere restaurate a Vienna, ed è desumibile sia stato restaurato a Firenze. Probabilmente l’asta fu sostituita, poiché nella foto in cui si vede esposto nella rastrelliera sembra più lungo. L’ipotesi è supportata dal fatto che attualmente il blocchetto non è leggermente più largo del legno.
Invece sappiamo molto meno dello spiedobrandistocco Ressman. Questo ha una gorbia in tronco di cono con bandelle, chiusa da anellatura. Ali triangolari tese obliquamente, a sezione esagona irregolare, che hanno origine dalla base della cuspide, la cosiddetta inforcatura, formando un’angolo acuto. La cuspide è a sezione di losanga, percorsa longitudinalmente da una costola.
Il brandistocco era un’arma da guerra caratterizzata da una lunga cuspide con alla base due punte rivolte verso l’alto. Utile quindi sia a penetrare sia a parare, molto usato nelle fortezze anche per respingere le scale degli attaccanti. In campo aperto gli specialisti nel maneggio di quest’arma erano schierati dietro i picchieri. Molti trattatisti ne consigliano l’uso in luoghi angusti, altrove, come a Venezia, alla metà del Seicento, ne erano dotati i moschettieri. Difficile dire dove il presente esemplare sia stato forgiato: in Italia i brandistocchi erano prodotti in tutti i principlai centri armieri, soprattutto nel bresciano e nella zona di Lucca.
Anche questo pezzo non figura tra le armi inviate a Vienna, tuttavia alcune ribattiture alle ali fanno pensare a un intervento successivo a una violenta caduta. È possibile che quest’oggetto si trovasse con le armi in asta meno importanti, collocate su delle panoplie alle colonne. Sappiamo che queste caddero, la maggior parte delle aste si spezzò e i ferri furono trovati anche molto lontano dalla loro sistemazione. Tuttavia, sia dal materiale fotografico sia da quello scritto, è difficile dire con precisione dove si trovasse al momento dell’alluvione.
Marco Merlo
Inediti
Bibliografia del catalogo a stampa
Bonifacius Epperle, Archibuso a focile
1760-1775
acciaio, ferro, ottone, legno di noce; cm 122
inv. n. AM 48
La collezione di armi da fuoco del Bargello è formata da più di 300 esemplari, molti dei quali di straordinaria importanza. Le armi più antiche, sopravvissute alla svendita dell’Armeria di Pietro Leopoldo, appartennero ai principi di casa Medici. Tuttavia la storia dell’Armeria granducale non si concluse con lo smantellamento voluto da Pietro Leopoldo. Il suo successore Ferdinando III era un grande appassionato dell’arte venatoria e aveva creato una nuova Armeria
Segreta. Durante la stagione napoleonica, il Granduca abdicò e venne ricompensato con il granducato di Salisburgo prima e di Würzburg dopo, due ex principati vescovili secolarizzati. Qui vi erano le armi da caccia dei vescovi suoi predecessori, che nel 1814 Ferdinandò riportò con sé.
Nell’allestimento ottocentesco dell’Armeria le armi da fuoco erano esposte in una lunga rastrelliera che fiancheggiava la parete: l’alluvione causò un danno di notevole impatto, come mostra una fotografia scattata alcuni giorni dopo la calamità.
All’indomani dell’alluvione l’interno di molte canne era pieno di fango, alcune si erano deformate e in molti casi era danneggiata la brunitura e le decorazioni all’agemina; alcune furono riempite di grasso per preservarne l’interno. La forza dell’acqua aveva anche sbattuto gli oggetti con violenza e molte casse si erano crepate o spezzate, alcune montature erano saltate. In taluni casi l’acqua ha deformato il sottomano, che non è più in asse con la canna. I meccanismi sono stati in larga parte recuperati, ma qualche esemplare ha subito la frattura del cane. Fortunatamente è stato possibile recuperare gran parte degli oggetti e solo alcune bacchette sono andate distrutte. Il riconoscimento non è stato difficoltoso, poiché piastre e canne sono per buona parte firmate e le armi provenienti da Salisburgo e Würzburg recano ancora gli stemmi dei vescovi committenti. Per il restauro fu tenuto conto che molte armi fanno parte di guarniture, metà per il tiro a volo e metà per la selvaggina grossa, gemelle tra loro e distinte grazie ai numeri di serie. Quindi gli sforzi si sono concentrati nel recuperare almeno un esemplare per guarnitura.
Molte armi provenivano da scambi o doni tra i principi della casa d’Austria e i Medici prima e i Lorena dopo, numerose di queste furono individuate a Vienna nelle fasi di studio finalizzate al restauro. Dal loro ingresso nell’Armeria granducale, per la prima volta potevano essere confrontate dal vivo con esemplari simili consentendo confronti mirati: il restauro si presentava come occasione per uno studio approfondito (Mostra delle armi storiche 1971, pp. 25-29). Una scoperta interessante fu che i numeri di inventario fatti punzonare sul calcio da Leopoldo II, riprendono il medesimo sitema usato nel gabinetto imperiale di caccia viennese.
L’esemplare in mostra, restaurato a Vienna (Mostra delle armi storiche 1971, p. 81), fa parte proprio di una guarnitura. La canna brunita è a due ordini, tonda e quadra anellata alla giuntura, con decorazioni all’agemina d’oro sulla parte quadra della canna e la firma “Bonifacius Epperle in Wirtzburg”; sulla culatta un punzone dorato con le iniziali “B.E.” sopra un drago alato. Tacca di mira dorata a pinna. Piastra alla francese con fiamma alla coda della molla, interamente decorata con fiori, volute e nicchi; scodellino tondo a sezione tagliata e briglia. Contro piastra in ottone dorato, decorata a rilievo con fiori, volute e nicchi su fondo puntinato. Cane a collo di cigno con ganasce quadre. Sotto lo scodellino, inciso a bulino, la firma “Bonifaci Epperle” e dietro il cane, sempre a bulino, “in Wirtzburg”. Grilletto a ricciolo all’indietro. Mezza cassa di noce intagliata a volute e nicchi; montature in ottone dorato lavorate a cesello. Sull’impugnatura uno scudo in ottone dorato con inciso a cesello il blasone del cinghiale con un fiore in bocca. Poggiaguancia sul calcio rivestito da una placca in ottone dorato lavorato a cesello. Bacchetta con battipalla in ottone dorato. È una delle armi che il granduca Ferdinando III prelevò da Würzburg, difatti il blasone
sull’impugnatura è del vescovo Adam Friedrich von Seinsheim. Su Bonifacius Epperle si possiedono poche notizie: fu maestro archibugiaro a Würzburg nella seconda metà del XVIII secolo.
Dal punto di vista conservativo, in questo esemplare e negli altri della stessa guarnitura, si osservano alcuni distaccamenti dell’agemina e scoloriture della brunitura, conseguenza dei danni causati dall’acqua e da una prima pulitura molto energica. Si riscontra la traccia di una patina superficiale e appiccicosa che a un esame autoptico non sembra essere il Paraloid B. 72 usato a Vienna. Le altre armi della guarnitura presentano danni differenti.
Marco Merlo
Bibliografia: Mostra delle armi storiche 1971, pp. 25-29, 81.
Bibliografia del catalogo a stampa
Bombarda a doghe
Italia
prima metà del XVI secolo
ferro; cm 143
inv. n. AM 1268
La collezione d’armi del Bargello comprende anche alcune artiglierie. La più celebre è il cannone in bronzo chiamato San Paolo, con la magnifica testa di anziano alla culatta, opera di Cosimo Cenni, che ha firmato anche l’altra importante artiglieria del Museo, il falcone del 1638, opere entrambe esposte nel cortile del Bargello. Nella collezione è anche presente una bombarda a doghe qui in mostra, l’artiglieria più antica del Bargello, prodotta non oltre il secondo quarto del XVI secolo. Questo tipo di cannone era costruito con verghe prismatiche di ferro battuto o fucinato poste per il lungo, come le doghe delle botti e poi saldate internamente e rinforzate con cerchi di ferro cui si dava la forma cilindrica saldandone infine gli orli. L’esemplare AM 1268 possiede undici di questi cilindri in ferro fucinato. La bocca, di un diametro di circa 9 cm, ha una strombonatura piatta. Al terzo cilindro, nella parte inferiore, e alla metà, nella parte superiore, è fissato un anello per il trasporto e il posizionamento. La culatta poggia contro una zeppa di legno verticale che teneva chiuso il mascolo durante la deflagrazione. Questa tipologia di cannone funzionava a retrocarica: il mascolo era la parte posteriore amovibile dell’intero pezzo, comprendente la culatta ed il tratto iniziale della canna. Il mascolo veniva caricato con polvere nera secondo la tecnica dell’avancarica e successivamente solidarizzato al cannone, in genere premendolo con un cuneo di legno. Tuttavia il collegamento tra il mascolo e la canna, a causa della carenza tecnologica, non aveva giunzioni solide e a perfetta tenuta, per cui all’aumentare della potenza dell’arma aumentava anche l’entità delle perdite per sfiati. Questi modificavano enormemente la prestazione dell’artiglieria, riducendo la pressione nella camera di scoppio e causando malfunzionamenti o addirittura l’espolosione del pezzo. Per questo motivo era indispensabile una zeppa di legno, e nell’esemplare del Bargello l’affusto è dotato di una robusta tavola di legno verticale.
Questi cannoni sono di concezione piuttosto antica, diffusi già verso la fine del XIV secolo. All’inizio del Cinquecento venivano ancora prodotti perché la retrocarica, nonostante gli incovenienti, consentiva comunque lo sparo da posizioni in cui era più difficoltoso operare secondo la più affidabile avancarica. Questo esemplare fu acquistato dal Beni Fabiani di Gubbio e donato al Museo il 17 maggio 1882 (Campani 1884, p. 35). L’affusto, sicuramente ottocentesco, è lungo quasi un terzo dell’intera bombarda, montato su due ruote di legno fissate all’affusto tramite una placca metallica. Non solo, è quasi impossibile che il legno originale si sia conservato così bene, ma anche la comparazione con l’iconografia dell’epoca ci porta a ritenere il tutto posticcio, poiché gli affusti originali erano privi di ruote, fissati dirattemente al terreno o ai muri tramite dei forconi e venivano trasportati legati alle groppe di animali da soma; le ruote invece rispondono a un immaginario ottocentesco. Nell’esposizione del 1966 i tre cannoni erano collocati a terra, il San Paolo al centro della sala e gli altri due tra le colonne. L’alluvione non fece danni significativi al San Paolo che, con la sua mole e il suo peso non fu spostato e non subì traumi, solo la canna fu ripulita dal fango, operazione che non sembra essere stata complessa.
Anche il falcone del Cenni fu solamente ripulito dal fango: il supporto dell’epoca, due eleganti piedistalli di legno, era troppo alto per reggerne il peso, ma la caduta danneggiò solo i piedistalli, che furono sotituiti con due più bassi e robusti, quelli ancora oggi usati.
Invece la bombarda a doghe, posta tra la prima e la seconda colonna, fu investita dall’acqua. Il suo supporto abbastanza precario fu trascinato via. I cilindri in ferro battuto, che erano semplicemente saldati tra loro, già indeboliti dall’usura in antico, si allentarono; una fotografia scattata durante i primi interventi dopo l’alluvione, mostra in primo piano le ruote che si staccarono dall’affusto.
Il pezzo non fu mandato a Vienna. I cilindri non furono risaldati ma solo compattati, come si evince dalla sola analisi autoptica dell’interno della canna, che però ha comportato un indebolimento dell’intera struttura. Fu restaurato anche il supporto, che oggi si presenta alquanto danneggiato. Le tecniche di restauro del legno alla fine degli anni Sessanta erano ancora relativamente arretrate e la reidratazione del materiale organico non era ottimale; non si riscontrano tracce di protettivi, che se furono apposti in fase di restauro, non sono stati iterati, causando in questi cinquanta anni un veloce deterioramento.
Marco Merlo
Bibliografia: Campani 1884, p. 35.
Bibliografia del catalogo a stampa