L’alluvione nell’Archivio di Stato di Firenze. Il percorso di recupero e restauro dei documenti

Saggio di Loredana Maccabruni

Nel palazzo degli Uffizi 250 sale situate al primo piano, nei mezzanini, al piano terreno e nei contigui edifici della Dogana e dei Veliti, erano occupate da 60 chilometri di documentazione lì conservata dall’Archivio di Stato di Firenze, istituito nel 1852 dal granduca Leopoldo II per aprire alla pubblica consultazione i documenti storici della Toscana prodotti da uffici e magistrature dell’epoca comunale e della Repubblica fiorentina dal XIV al XV secolo, fino al Granducato mediceo e lorenese dal XVI al XIX secolo, e l’archivio Diplomatico con 150.000 pergamene risalenti fino all’VIII secolo d.C. A questi si erano aggiunti dopo l’Unità e nel corso del XX secolo, consistenti versamenti di documentazione da parte degli uffici dell’amministrazione statale corrente, cosicchè nel 1966 l’Archivio di Stato conservava circa 500.000 unità tra filze, buste, registri, per milioni di carte (1).

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Il 4 novembre 1966, verso le cinque del mattino, l’Arno straripava invadendo in breve tempo con acqua mista a nafta 40 sale poste al piano terreno degli Uffizi dove sommerse fino all’altezza di circa 2 metri la scaffalatura in cui era collocata in prevalenza documentazione antica e moderna di natura giudiziaria e amministrativa, ma anche archivi di corporazioni religiose soppresse e di alcuni istituti di assistenza e ospedali.

Si calcolò allora per difetto, nell’immediatezza dell’evento, il danneggiamento di circa 45.000 pezzi, appartenenti a 46 fondi archivistici di ogni epoca, fra i quali Capitani di Parte guelfa, Podestà, Capitano del popolo, Otto di guardia, Nove conservatori della giurisdizione e del dominio, Magistrato dei Pupilli, Magistrato supremo, Rota criminale, Ruota civile, Presidenza del Buongoverno, Stato civile toscano, Preture, Tribunali, Prefettura, Questura (2). Considerando anche la documentazione non ancora inventariata, come gli allora recenti versamenti del Catasto particellare toscano del 18323, dell’Amministrazione delle poste, delle Corti d’assise e d’appello, dei Distretti militari, ed altri ancora, l’entità del danno aumentava fino a oltre 50.000 unità. Ma il lavoro di totale ricognizione del materiale alluvionato compiuto tra il 1970 e il 1987 fece comunque emergere ulteriori 13.000 unità circa che non erano state censite. Con esse, tenuto conto degli oltre 11.000 pezzi andati distrutti o dispersi, in quanto non più riconoscibili, si è arrivati a calcolare un’entità complessiva di circa 70.000 pezzi alluvionati.

Nel 2006, in occasione del 40° anniversario dell’evento, si faceva il punto della situazione, verificando che il 65% di tutto il materiale danneggiato era stato identificato, restaurato e ricollocato nei fondi di appartenenza. Fra il materiale ancora da restaurare, e quello meno danneggiato solo da riordinare e ricondizionare, rimanevano altri 2500 metri circa di documenti, a fronte dei 4570 metri di documenti alluvionati trasferiti nell’88 nella nuova sede (4). Ma per arrivare a questi apprezzabili risultati il cammino è stato molto lungo e difficile.

All’indomani dell’alluvione lo spettacolo che si presentava agli occhi del personale dell’Archivio di Stato era veramente spaventoso e desolante, ma tutti trovarono la grande forza d’animo di reagire subito alle conseguenze dell’evento e organizzare in tempi brevi l’enorme lavoro di recupero dall’acqua e dal fango di quanti più documenti possibili, ordinando materiali e attrezzature per un pronto intervento.

L’efficienza del personale fu veramente esemplare, tanto che la sala di studio rimase chiusa soltanto poco più di un mese; il 28 dicembre del ’66 fu possibile riaprirla al pubblico con una cerimonia di reinaugurazione. Per fortuna, già dal 5 novembre si era affiancato al personale dell’Archivio il soccorso di un primo gruppo di studiosi fra i più assidui frequentatori dell’Istituto che riuscì a convogliare anche verso l’Archivio di Stato un gran numero di volontari, già mobilitati in massa in aiuto alla Biblioteca Nazionale.

Inoltre dagli istituti archivistici più vicini, per primo quello di Perugia, giunse altro personale per aiutare a spostare i documenti dai depositi allagati, disponendone una gran parte all’aperto sotto i loggiati degli Uffizi, da dove, sollevati con paranchi ai piani superiori attraverso i finestroni del primo piano, insieme agli altri pezzi meno danneggiati ugualmente spostati per sottrarli all’umidità, furono poi trasportati con i mezzi dell’Esercito in vari locali di deposito che i funzionari reperirono nelle vicine sedi istituzionali, come la Sezione di Archivio di Stato di Prato, e negli spazi messi a disposizione da altre amministrazioni (Corte d’assise di Arezzo; cfr. fig. 1), da istituti religiosi (convento dei frati minori a Galceti presso Prato, monastero di Vallombrosa), da associazioni (fattoria di Mugliana, presso Arezzo, della Fraternita dei Laici) e da privati imprenditori della zona di Prato nei magazzini dei propri stabilimenti. Mentre tra novembre e dicembre 1966 venivano allestiti centri di deposito per l’asciugamento del materiale alluvionato nella Sezione di Prato, nell’Archivio di Stato di Arezzo, presso la Manifattura Tabacchi e nell’Archivio di Stato di Perugia, agli Uffizi il personale e i volontari, nelle sale del primo piano, iniziarono subito a interfoliare le filze umide con carta assorbente e stecche di legno, a riordinare e riunire per quanto possibile le tante carte rimaste sciolte e confuse (fig. 2).

Non si aveva alcuna esperienza di come effettuare una rapida asciugatura di una così grande quantità di materiale e pertanto furono sperimentati diversi metodi di essiccazione che, in molti casi ancora oggi visibili, se da una parte salvarono la leggibilità delle scritture impedendo l’incollamento delle carte, dall’altra provocarono l’irrigidimento delle filze, deformandone coperte e supporti. Nella sezione di Prato, ad esempio, fu allestito un primo centro di essiccazione con metodi che oggi non si userebbero assolutamente: le filze, appoggiate aperte su reticolati di speciale materiale plastico montati su telai in legno o tesi fra gli scaffali, furono asciugate con lampade a raggi infrarossi (fig. 3). Altrove (Arezzo, Perugia) fu sperimentata l’asciugatura all’aria con le carte stese su fili, o con aria calda diffusa da stufe a gas in depositi dove le filze erano disposte aperte su palchetti di legno. Poiché la Manifattura Tabacchi di Perugia non era sufficiente a essiccare il materiale in tempi ragionevolmente brevi, finalmente fu trovato presso il Consorzio Tabacchicultori di San Giustino Umbro un grande e modernamente attrezzato impianto di essiccazione (che già ospitava i volumi della Biblioteca Nazionale) dove furono trasportate 38.000 filze (figg. 4-5).

Le procedure lì adottate per l’asciugatura sono ben descritte da Francesca Morandini, funzionario dell’Archivio di Stato di Firenze, nella relazione redatta nel gennaio 19675: Il sistema impiegato nella essiccazione dei documenti è il seguente: i pezzi vengono prima lavati da un centinaio di operaie, già adibite alla lavorazione delle foglie del tabacco, e quindi abituate ad un lavoro di estrema delicatezza, con spugne continuamente lavate sotto un getto d’acqua corrente. Questa operazione si svolge in un locale appositamente attrezzato e riscaldato.

Le operaie separano i pezzi più grandi da quelli più piccoli in modo che in una stessa cella di essiccazione possano essere collocati pezzi di un medesimo spessore per rendere il più possibile uguali i tempi di essiccazione. Dopo questa prima operazione si introducono i pezzi aperti negli essiccatoi. Questi sono di due specie: tradizionali e americani. I primi sono dei locali alti circa 8 metri, larghi 4 e lunghi 6, nei quali i vari pezzi vengono introdotti o aperti su telaietti di legno, appositamente costruiti, o posti in costa su bastone di legno.

Questi essiccatoi sono riscaldati da serpentine a rondelli irradianti nelle quali circola il vapore acqueo immesso da una caldaia. Sul loro pavimento sono disposte le varie bocchette dei ventilatori e sul tetto vi è un estrattore dell’aria calda e umida in modo che negli essiccatoi circolasempre aria calda e asciutta che vi viene continuamente immessa dall’esterno. L’essiccazione viene fatta gradualmente in un periodo di tempo che va dai dodici ai quattordici giorni ed è completa.

La temperatura viene portata da quella ambiente fino a 40-45 gradi di calore, gradatamente, in modo da non guastare l’equilibrio chimico degli inchiostri, che hanno resistito all’azione dell’acqua e del fango, né quello della carta. La tabella che regola la durata dell’esposizione alle diverse temperature è stata compilata da un esperto della stazione sperimentale di silvicoltura di Firenze, sulla scorta delle esperienze fatte nella essiccazione dei semi forestali. Ciascun essiccatore tradizionale contiene oltre 1500 filze o registri. Essi sono in numero di 8 e perciò possono essiccare una notevole massa di documenti. Gli essiccatoi americani a noi in uso sono 7 ed agiscono in base al medesimo sistema; solo che la circolazione di aria calda sempre nuova è forzata e perciò l’essiccazione è più rapida. Bastano dai 9 ai 10 giorni perché il ciclo di essiccazione nei forni americani sia completo, ma occorre anche far rilevare che la loro capienza è di soli 700 pezzi (6).

Anche se in questo primo periodo vi fu una gara di solidarietà generale nell’offrire locali e mezzi per il recupero dei documenti, le operazioni successive di natura tecnico scientifica specialistica, come il riconoscimento e il restauro del materiale più danneggiato, dovevano essere incentivate da adeguati finanziamenti. La somma iniziale di 5 milioni di lire stanziata subito dal Ministero dell’Interno (da cui dipendeva allora l’amministrazione archivistica) poteva coprire appena gli acquisti di materiali e servizi per le operazioni di salvataggio, ma molto più importanti e fondamentali furono gli aiuti finanziari che l’UNESCO immediatamente mobilitò per il recupero del patrimonio artistico e culturale di Firenze convogliandoli anche sull’Archivio di Stato.

Una delle principali iniziative fu la costituzione del CRIA (Committee to Rescue Italian Arts) che si appoggiava alla sede fiorentina dell’Harvard University a Villa I Tatti, con cui furono retribuiti per tre anni giovani ricercatori stranieri che si dedicarono a tempo pieno presso l’Archivio di Stato a riconoscere, schedare e numerare i pezzi d’archivio recuperati, specialmente dei fondi più antichi, soprattutto le Compagnie e Corporazioni religiose soppresse, producendo oltre 10.000 schede e un inventario che servì a poterli consultare. Ricondurre i documenti alla loro originaria appartenenza per ripristinarne l’ordinamento sequenziale fu infatti una delle operazioni più difficili da compiere, perché gran parte delle filze avevano perduto le segnature esterne di numerazione e descrizione dell’ufficio o magistratura cui appartenevano. I documenti che compongono un archivio infatti perdono significato se avulsi dal rapporto di reciproca e logica concatenazione. Ciò si verificò specialmente con quelli a cui erano state tolte subito le coperte pergamenacee per evitare il proliferare di muffe e batteri e procedere quindi a un’essiccazione più rapida dei soli supporti cartacei (7).

Il materiale essiccato nei vari centri, la gran parte a San Giustino, rientrò completamente in sede nel giugno 1968, quando erano ultimati i lavori di risanamento, riparazione e ristrutturazione delle sale ai piani terreni degli Uffizi. Il processo di deumidificazione delle pareti, con un grande impianto di immissione di aria calda con tubature metalliche che attraversavano tutte le sale alluvionate, richiese un anno e mezzo e comportò anche ulteriori spostamenti di materiale archivistico ai piani superiori.

Per procedere alle indispensabili operazioni di restauro, in modo da poter restituire i documenti alla consultazione, occorreva disporre di un laboratorio modernamente attrezzato. Dal 1917 si disponeva soltanto di una cosiddetta “officina” in due stanzette degli Uffizi, con un solo operaio e scarse attrezzature, utilizzata per semplici restauri di pezzi archivistici deteriorati dal tempo e dall’uso. Ma dal giugno 1967, per iniziare a trattare il materiale che via via rientrava in sede da centri minori, con i finanziamenti dell’UNESCO, il contributo del Fondo Internazionale per gli Aiuti a Firenze e della Fondazione Volkswagen, oltre a ulteriori finanziamenti statali, fu possibile allestire e dotare di personale tecnico e delle prime attrezzature un piccolo laboratorio di legatoria e restauro nei locali annessi al Salone Magliabechiano, la cui direzione fu affidata a Francesca Morandini, che per acquisire le prime esperienze tecniche in materia si recò a Londra con due restauratori per studiare i metodi del Public Record Office.

Ma per far fronte alle esigenze di restauro in grande scala che si prospettavano fu trovato un ambiente molto più ampio e più adatto nel cosiddetto ‘Salone palatino’ (posto dietro gli Uffizi, sotto il Salone Magliabechiano), anch’esso completamente da risanare, che il Comune cedette allo Stato. In quel grande locale appositamente ristrutturato iniziò a funzionare nel luglio1968 il nuovo laboratorio.

Oltre al centro di legatoria e restauro di Roma, diversi archivi nazionali europei da luglio1967 misero a disposizione i loro laboratori per sperimentare tecniche di risanamento e restauro su alcune tipologie di documenti alluvionati. Così fino al 1969 vennero inviati a Belgrado, Zagabria, Budapest, Copenhagen, Coblenza, Bruxelles e Oslo (fig. 6) alcune centinaia di filze e registri, specialmente pergamenacei, dei fondi più antichi, sui quali il restauro fu eseguito con metodi non sempre adatti alla tipologia dei supporti. Su diversi pezzi rientrati da quei laboratori si dovette reintervenire con tecniche meno invasive affinate nel nuovo laboratorio dell’Archivio di Stato.

Con una superficie di 900 mq, dotato di attrezzature e macchinari nuovi donati da vari organismi internazionali, comprese un’essiccatrice elettrica e una speciale macchina di fabbricazione jugoslava per impregnazione chimica delle carte, e con 20 tecnici stipendiati con i fondi dell’UNESCO, il nuovo laboratorio, sotto la direzione di Francesca Morandini, dopo aver dapprima sperimentato il trattamento di fondi archivistici moderni come l’ottocentesco Stato civile toscano, iniziò il lungo processo di restauro degli archivi recuperati (fig. 7) (8).

Nei primi anni di vita il nuovo laboratorio fu spesso meta di restauratori stranieri e italiani del Centro di Roma per apprendere o insegnare le tecniche per allora più progredite da applicare al restauro dei documenti d’archivio (9). Le procedure usate nei primi anni vennero in seguito abbandonate, come la laminazione e l’impregnazione, che non erano affatto adatte alla documentazione antica.

L’evento dell’alluvione nella sede degli Uffizi, già satura per ospitare ulteriori versamenti, accelerò inoltre la costruzione di un nuovo apposito edificio per l’Archivio di Stato. Con i 2 miliardi e mezzo di lire stanziati dal governo il 18 novembre 1966 e il progetto degli architetti Gamberini e Macci, che vinse il concorso nel 1974, la nuova sede sorse sull’area del demolito palazzo della ex GIL in piazza Beccaria, dove il trasferimento fu compiuto in un anno dal 1987 al 1988.

Il lavoro sul materiale alluvionato è continuato dal 1989 nel nuovo edificio in uno spazio ancora più vasto e attrezzato, con personale assunto negli anni Ottanta, adottando procedimenti tecnici sempre aggiornati, con l’impiego di materiali leggeri e flessibili più simili a quelli originali, e riparazioni non invasive alle lacune delle carte e delle coperte, che senza occultare con false ricostruzioni il danno patito dai supporti, consente la resistenza all’uso e la leggibilità delle scritture dovuta fortunatamente alla non solubilità degli antichi inchiostri metallo-gallici (10).

Restituire ai documenti alluvionati un aspetto il più possibile vicino all’originale comporta un attentissimo lavoro manuale specialistico: scucitura della filza, spolveratura di ogni residua traccia di fango, deacidificazione dei supporti, lavaggi carta per carta, asciugatura naturale su telai, integrazione delle lacune con carta e velo giapponesi, o pergamena, sutura, rifilatura e spianamento del rattoppo, ricucitura della filza carta per carta al capitello, riposizionamento della coperta restaurata o recuperata, legatura e apposizione della segnatura archivistica (11).

I pezzi scelti per questa esposizione intendono quindi esemplificare le varie procedure di restauro effettuate in tempi diversi sia nel laboratorio dell’Archivio di Stato che all’estero, insieme ad alcune tipiche unità non ancora restaurate su cui si dovrà proseguire il lavoro.


  1. Cfr. Tavole dell’ordinamento topografico 1987.
  2. Cfr. D’Addario 1966 e Camerani 1967.
  3. Cfr. D’Addario 1966, p. 528.
  4. Maccabruni 2016.
  5. Relazione di Francesca Morandini allegata alla “Relazione sull’attività svolta nel 1966”, inviata alla Direzione Generale degli Archivi da parte del direttore dell’Archivio di Stato di Firenze Sergio Camerani (ASFi, Archivio di Stato di Firenze, prot. 54 ris., 27 gennaio 1967).
  6. Ivi.
  7. Cfr. D’Addario 1966, p. 349.
  8. Cfr. Morandini 1980.
  9. Cfr. Prosperi 1991.
  10. Cfr. Pansini 1991 e Signorini 2002.
  11. Cfr. Marchi 2009 e Giovannelli 2015.

Bibliografia del catalogo a stampa