Scultore toscano, Cristo portacroce
Scultore toscano
Cristo portacroce
fine XIV-inizio XV secolo
legno intagliato e dipinto, alt. cm 165
Firenze, in deposito presso il Museo di San Marco
Questa scultura, di ignota provenienza, mostra Cristo, a figura intera, volto a destra, con le braccia posizionate in atto di sostenere il peso di una croce. Oltre alla posizione delle braccia, anche lo scarto laterale della testa inducono a ipotizzare la presenza di una croce, che non ci è pervenuta. Il corpo di Cristo è coperto da una lunga tunica, che ricade in fitte pieghe fino ai piedi.
Con l’attribuzione a uno scultore toscano del XIV secolo, l’opera è stata esposta nella mostra Salvate dalle acque (Firenze 1996, p. 27, n. 30). In seguito ai danni subiti con l’alluvione del 1966, la scultura presentava uno spesso strato di fango alluvionale su gran parte della superficie ancora dipinta, composta da tre successive stesure di colore e una densa patina oscurava completamente la decorazione pittorica del manto e ne affievoliva la qualità materica.
Durante le operazioni di restauro, si è potuto appurare che la scultura è stata intagliata in un tronco di pioppo, svuotato e chiuso da una tavola della stessa essenza lignea, che da metà schiena arriva a comprendere il fianco sinistro. Tale chiusura è ancorata al tronco con otto chiodi di ferro e un perno ligneo. Una tavola di ringrosso posta sul fianco destro ha inoltre permesso allo scultore di raggiungere l’effetto di volumetria desiderato. Il braccio sinistro è intagliato in un blocco unico, il destro utilizzando due differenti ceppi di legno. La testa utilizza un altro blocco, il tutto è fissato con grossi chiodi di ferro. Le giunture e le connettiture sono ricoperte da strisce di tela che avevano lo scopo di smaltire i movimenti del legno e di conservare meglio il colore posto sulla superficie lignea preparata a gesso e colla. La policromia originaria è ancora visibile in più parti della scultura: nell’incarnato, nei capelli, nella barba, nella corona di spine, nella bellissima veste decorata da racemi grigi e neri su sfondo bianco e finita con un bordo dorato.
Anche la veste, costruita da una serie di canne che ricadono in basso con un andamento ancora goticizzante, è stata recuperata nei suoi colori e nella decorazione con motivo a “greccia” semplificata. Significativa la corona di spine quadrangolari, di grande forza plastica, che, insieme agli elementi sopra descritti, ci inducono a spostare l’epoca di esecuzione della scultura a fine Trecento, primi del Quattrocento. Le ragioni di questa datazione sono il realismo espressivo del volto martoriato di Cristo, la qualità dell’intaglio, profondo e plastico, della folta e lunga capigliatura trattenuta dalla corona, così forte e insolita, che produce grossi grumi di sangue sulla fronte. Il pesante modo di ricadere delle pieghe dell’abito, il volto del Cristo fortemente chiuso nella sua profonda coscienza della missione che sta portando a termine, oltre a confermare la datazione alla fine del Trecento-primi del Quattrocento, inducono a ipotizzare che l’opera sia stata eseguita da un grande scultore, e in particolare questi elementi portano verso la cultura del senese Francesco di Valdambrino. Si può suggerire un confronto con sculture da lui sicuramente eseguite come i Santi Crescenzio, Savino e Vittore del Museo dell’Opera del Duomo di Siena (1409), in particolare il profilo del volto di Cristo con i calligrafici capelli ondulati riproduce quasi esattamente quello di San Vittore (cfr. A. Bagnoli, in Scultura dipinta 1987, pp. 140-143). Ed ancora M. Bietti (2006, p. 20) segnala l’affinità con la Vergine e l’Angelo dell’Annunciazione del Museo d’Arte Sacra di Asciano (1415 circa) per l’intaglio del tronco sottolineato dalle pesanti vesti che ricadono a terra in potenti pieghe, fino ai piedi.
Il Cristo portacroce è nell’insieme di un intaglio più goticizzante che quello delle opere di Francesco di Valdambrino anteriori al 1403. Un confronto molto interessante è quello con Cristo Crocifisso ora presso il Detroit Institut of Arts, attribuito dal Daar al Valdambrino e ritenuto dal Bagnoli di ambito del Pisano (cfr. M. Burresi, in Scultura lignea 1995, p. 178) in cui appare significativo l’identico modo di realizzare la corona di spine, con un analogo motivo di intreccio che forma una serie di maglie quadrangolari. In particolare questo elemento appare compatibile con il recupero della cultura del Pisano da parte dello scultore senese. Questo rafforza l’ipotesi che il Cristo portacroce qui presentato sia da collegarsi all’età giovanile del Valdambrino o di un suo prossimo e altrettanto grande collaboratore. ù
Marilena Tamassia
Bibliografia: A. Bagnoli, in Scultura dipinta 1987, pp. 140-143; M. Burresi, in Scultura lignea 1995, p. 178; Salvate dalle acque 1996, p. 27, n. 30; M. Bietti, in Piccoli grandi tesori 2006, p. 20.
Bibliografia del catalogo a stampa
Biagio d’Antonio Tucci, Santa Maria Maddalena e motivi decorativi ‘a griccia’
Biagio d’Antonio Tucci
(Firenze 1445 circa-1516)
Santa Maria Maddalena e motivi decorativi ‘a griccia’
paliotto dipinto, tempera su tavola; cm 92 × 203
Firenze, Chiesa di Santa Maria di Badia Fiorentina
La qualità di questo paliotto dipinto risalta nelle cromie delle vesti della Maddalena, nelle sfumature incredibilmente intatte dell’incarnato del viso accostato al biondo oro dei capelli sciolti, nel particolare della mano destra disegnata con un’abile visione prospettica. Il polilobo scuro che inquadra e fa risaltare la silhouette di questa morbida e nitida figura rinascimentale è circondato da una tessitura dipinta da motivi decorativi chiamati ‘a griccia’ costituiti da pigne, melagrani, fiori di cardo e foglie di quercia che si sviluppano sull’estensione del paliotto per concludersi in alto con una illusionistica frangia multicolore e una bordura che imita un ricamo a girali e motivi vegetali alternato a tre tondi con un Angelo annunciante e una Vergine annunciata alle due estremità, e un Cristo in pietà al centro. Il restauro, eseguito tra il 2009 e il 2011 da Stefano Scarpelli per la superficie pittorica e da Roberto Buda per il supporto ligneo, è riuscito a restituire a quest’opera la sua raffinata eleganza consentendone poi il ritorno nel marzo del 2012 nella chiesa di Badia Fiorentina, dove è stata collocata nella cappella a destra dell’altar maggiore di fronte ad un altro paliotto dipinto della fine del Quattrocento restaurato negli stessi anni (GR 4275; UR 10794). Il finanziamento dei Fondi Lotto, erogato alla Soprintendenza fiorentina tra il 2007 e il 2009 e destinato al restauro delle opere conservate nei depositi, è stato essenziale per fare tornare alla visibilità questa tavola ritirata in un periodo successivo all’alluvione, poi esposta alla storica mostra di Firenze restaura del 1972 come opera in attesa di restauro e quindi rimasta nei depositi fino al 2009. Non si tratta di un dipinto ‘alluvionato’ in senso stretto poiché l’acqua nella chiesa di Badia non superò l’altezza di un metro e non raggiunse la zona absidale sopraelevata dove esso venne rinvenuto. Nella mostra del 1972, infatti, il paliotto fu esposto (come opera di scuola fiorentina del XV secolo) in una sala dedicata alle scoperte realizzate a seguito dei numerosi lavori effettuati in città dopo l’alluvione del 1966: esso fu sorprendentemente individuato, nel corso degli interventi di ripristino del coro della Badia, inserito nella struttura di un altare dove era stato posto rovesciato utilizzando la parte tergale come pedana. Questo sconcertante riutilizzo, collegato all’assoluto disinteresse per la pittura quattrocentesca che era stata anche trafitta da chiodi inseriti per fissarla al pavimento, dovette durare molto a lungo come si deduce dalla ben visibile consunzione del legno nelle parti dove maggiormente avevano strusciato i piedi del celebrante che officiava all’altare. L’antica e originaria collocazione della tavola è stata individuata nella cappella dedicata alla Maddalena di patronato della famiglia Covoni da Roberta Bartoli che ha anche riconosciuto la mano del pittore Biagio d’Antonio nel dipinto (1992 e 1999), attribuzione questa da condividere e accettare senza dubbi. Il paliotto dovette essere stato eseguito nel periodo del grande rinnovamento degli apparati di Badia realizzato negli anni Settanta e Ottanta del Quattrocento e la sua datazione è difatti da collocare all’interno dell’ottavo decennio del secolo (Bartoli 1999; M.M. Simari, in Dai depositi Nei depositi 2012). All’incirca a questo stesso periodo risale il prezioso e noto parato in velluto operato commissionato per addobbare completamente le pareti della chiesa in occasioni solenni (Liscia Bemporad 1981, pp. 29-30) i cui motivi decorativi ‘a griccia’ sono certamente in rapporto con l’illusionistico tessuto che fa da fondo alla figura dipinta della Maddalena, dove si imita il velluto rosso cremisi e i motivi decorativi in teletta d’oro (M.M. Simari, in Dai depositi Nei depositi 2012). Alla prima metà del Seicento risale invece la distruzione dell’altare della Cappella della Maddalena e la dispersione dei suoi arredi a seguito della completa ristrutturazione della chiesa avviata nel 1627. È possibile che in momento successivo alla conclusione dell’incisiva (e stravolgente) ristrutturazione seicentesca sia iniziato l’utilizzo improprio del bel paliotto di Biagio d’Antonio, rimasto così nascosto e segreto per secoli fino al ritrovamento fattone da Umberto Baldini inaspettatamente grazie all’alluvione del 1966.
Maria Matilde Simari
Bibliografia: U. Baldini, in Firenze restaura 1972, p. 67, n. 16; R. Bartoli, in Maestri e Botteghe 1992, p. 243; Bartoli 1999, pp. 30 e 183-184; M.M. Simari, in Dai depositi Nei depositi 2012, pp. 46- 49; L. Pacciani, G. Romagnoli, in Dai depositi Nei depositi 2012, p. 220, n. 14.
Bibliografia del catalogo a stampa
Manifattura toscana, Espositorio
Manifattura toscana
Espositorio
metà del XVIII secolo
legno intagliato, scolpito, dorato e argentato, alt. cm 160 × 106 × 50
Firenze, Chiesa di San Michele Visdomini
La grande residenza di San Michele Visdomini è stata restaurata da Rita Chiara De Felice nel 2014 con finanziamento dei fondi ordinari della Soprintendenza SPSAE e Polo Museale della città di Firenze (direzione Maria Matilde Simari, UR 12058), insieme a molti altri arredi della stessa chiesa che per decenni erano rimasti conservati in attesa di restauro nei depositi della Villa medicea di Poggio a Caiano. Fu ritirato dalla chiesa fiorentina l’11 gennaio del 1967 come da documentazione di elenchi redatti dopo l’alluvione del 1966 in cui si legge “… una residenza nuvole e cherubini, dorata e argentata, sec. XVII” (ASTUC 0125).
Nel trascorrere del tempo la notizia sull’appartenenza alla chiesa era andata dispersa relegando il manufatto nella vasta schiera delle opere divenute di provenienza anonima. Solo in tempi recenti, grazie alle ricerche svolte per effettuare una completa inventariazione delle opere lignee alluvionate conservate nei depositi della Soprintendenza, è stato possibile individuare tramite documentazioni fotografiche d’archivio (GF 134958) l’ente proprietario dell’imponente arredo ligneo ovvero la chiesa posta a circa un centinaio di metri dalla cattedrale di Santa Maria del Fiore, lungo via dei Servi, spesso indicata come San Michelino e nota soprattutto perché in essa è conservata la celebre Pala Pucci eseguita dal Pontormo nel 1518. Qui, come si legge nella breve relazione di sopralluogo redatta da un funzionario della Soprintendenza “l’inondazione del 4 novembre 1966 ha portato 1,60 m d’acqua mista a fango e nafta che si è arrestata poco sotto i quadri d’altare, ma ha molto danneggiato tutti gli arredi di chiesa e di sagrestia…” (ASTUC 0125). Nel 2014-2015 una campagna di restauro con finanziamento della Soprintendenza ha consentito di intervenire con operazioni conservative su un notevole numero di arredi lignei della chiesa di San Michelino. Sono stati così sottoposti ad intervento di revisione strutturale e di miglioramento estetico circa 220 oggetti, suddivisi tra candelieri d’altare e candelabri, espositori, un candelabro per cero pasquale un repositorio, croci d’altare e diverse basi (cfr. Pacciani 2015, pp. 248-249, nn. 1-11; pp. 251-254, nn. 4-19). Per limitare i costi non si è proceduto all’applicazione della foglia d’oro nelle parti lacunose, ma alla loro chiusura ad acquarello. Si è provveduto, invece, con cura alla pulitura dal fango ancora presente in più zone, alle fermature delle superfici e alla ricostruzione delle parti strutturali mancanti. Come per gli altri manufatti anche questa elegante residenza con putto volante presentava ancora nel 2014 numerosi depositi di fango alluvionale, molti sollevamenti e lacune sulle finiture in argento e oro; le varie parti del manufatto ligneo erano sconnesse, alcune parti del modellato (braccio e mano destra del putto) staccate, altre – due dita della mano sinistra – andate perse. Una foto eseguita durante le operazioni di restauro mostra l’angelo volante staccato dal nuvolario argenteo del fondo evidenziando le qualità dell’intaglio che lo rendono affine a coeve opere scultoree, si pensi ad esempio a consimili putti dovuti allo scultore Giuseppe Piamontini.
Nell’aprile del 2015 la residenza – da ritenere opera della metà del XVIII secolo – è stata finalmente restituita alla chiesa di San Michele Visdomini.
Laura Pacciani
Bibliografia: Simari, Pacciani 2015, pp. 72-73, fig. 22; L. Pacciani, in Dai depositi Nei depositi 2015, p. 251, n. 4. Particolare dell’angelo
Bibliografia del catalogo a stampa