Tra coloro che più spesso incrociavano le lame per questioni d'onore occupavano una posizione di tutto rilievo i parlamentari. Gli scontri verbali che avvenivano in Aula, infatti, talvolta finivano sul terreno, poiché si trovava nel tono e nelle parole dell'avversario un'offesa tale da richiedere un duello per poter essere lavata.
Ciò dovrebbe far riflettere sulla reale condivisione della retorica per la quale la tribuna parlamentare costituiva il luogo sacro per eccellenza della libertà di parola. Come poteva esser valido questo assunto se si poteva essere chiamati a rispondere in duello di quanto si affermava, anche utilizzando parole dure?
Il duello, dunque, si dimostrava ancor di più parte integrante dell'orizzonte mentale e culturale dell'«onorevole»-tipo dell'età liberale.
Duello Nicotera-Lovito
Il 6 dicembre 1883 l'onorevole Giovanni Nicotera, già ministro dell'Interno, nei corridoi di Montecitorio aggredì verbalmente il deputato Enrico Lovito, segretario generale del ministero degli Esteri, sputandogli due volte in faccia.
Motivo del contendere era la nomina a cavaliere di un soggetto che Nicotera riteneva autore di un libello calunnioso ai suoi danni. L'inevitabile duello, tenutosi il giorno dopo, fu così feroce che il Lovito, già ferito, non sentì l'alt e continuò a scagliarsi contro Nicotera. Perfino uno dei padrini, intervenuti per dividere i contendenti, restò ferito.
Vennero così infrante tutte le regole cavalleresche e il fatto suscitò ampia eco e vivace sdegno per i modi che avevano originato e caratterizzato la vertenza.
Duello Prinetti-Franchetti
Un diverbio nei corridoi di Montecitorio a proposito del disegno di legge sul riordinamento della colonia Eritrea fu all'origine di un clamoroso duello alla sciabola fra l'onorevole Leopoldo Franchetti e il ministro degli Esteri Giulio Prinetti. La sfida sul campo si tenne a Roma l'8 giugno 1902, nel giardino di villa Medici al Vascello, e si concluse con il leggero ferimento di Franchetti.
Lo scontro tra un ministro e un deputato sollevò aspre critiche sulla stampa. In primo luogo, si biasimò il fatto che essi avessero contravvenuto alla legge, violazione resa ancor più grave dal loro status di rappresentanti della nazione. Questi episodi sembravano dar ragione ai tanti censori dell’istituto parlamentare, visto come un’assemblea incapace di adempiere alla propria missione, divisa e ingovernabile a causa del prevalere degli interessi personalistici su quelli generali. Prinetti, inoltre, attirò su di sé una generale disapprovazione, poiché col suo comportamento aveva messo in luce un temperamento poco riflessivo e perciò inadatto al delicato ruolo di ministro degli Esteri. Il Paese, dunque, non poteva esser rappresentato da una persona incapace non solo di tenere a freno il linguaggio, ma di anteporre il proprio onore ai doveri del suo delicato compito.
Leopoldo Franchetti non era nuovo a scendere sul terreno per una questione alla quale molto teneva, tanto da impegnarvi il proprio onore. Oltre allo scontro con Prinetti, infatti, si era battuto nel 1891 col generale Antonio Gandolfi, allora governatore dell’Eritrea, per una divergenza di vedute sulle politiche di colonizzazione agricola per la colonia e nel 1899 con Attilio Luzzatto, onorevole anch’egli come Franchetti, per un diverbio sorto durante una discussione alla Camera sul bilancio di previsione della marina. In entrambi gli scontri Franchetti ebbe la peggio: ferito, dovette riconoscere la vittoria all’avversario.
Duello Gambarotta-De Felice
All'alba dell'8 dicembre 1913, fuori Porta San Giovanni a Roma, si affrontarono alla spada il deputato novarese Guglielmo Gambarotta e quello catanese Giuseppe De Felice Giuffrida. La sfida era stata originata dall'assunzione di responsabilità, fatta da De Felice a nome dei colleghi socialisti, dell'epiteto di «arlecchino», lanciato contro Gambarotta durante il dibattito in Aula a seguito delle polemiche sull'appoggio dei cattolici ai candidati liberali (sancito dal «patto Gentiloni»).
Lo scontro fu preceduto da manovre e stratagemmi per evitare la pubblica sicurezza (decisa come da legge ad impedirlo), e venne arbitrato dal celebre maestro d'armi Agesilao Greco; si concluse con il ferimento di Gambarotta e la riconciliazione degli avversari, mentre i presenti gridavano: «Viva la Camera italiana!».