Architecture Toscane, ou palais, maisons, et autres édifices de la Toscane. Indice ragionato delle tavole.
Daniela Smalzi
Le modalità di approccio di Grandjean e Famin al monumento e alla sua resa non sono state fino ad oggi approfondite: è stato dunque avviato un lavoro di analisi delle singole tavole e dei relativi testi di riferimento per cercare di dedurre e comprendere le procedure che hanno portato alla composizione dell’opera. Sicuramente la scelta dei monumenti dovette avvenire in base a gerarchie e motivazioni di tipo storico-culturale, ma una serie di fattori legati alla contingenza, alla logistica e all’accessibilità dei luoghi non dovette essere meno importante, così come la possibilità di utilizzare materiale manoscritto e a stampa già disponibile. Confrontando dunque i manufatti proposti con l’iconografia nota sul monumento[1] è stato possibile in alcuni casi riconoscere la fonte diretta[2], ad esempio le incisioni dallo Studio d’architettura civile di Ferdinando Ruggeri (opera maggiormente incentrata su dettagli di porte e finestre, anziché su restituzioni complessive in pianta/sezione/prospetto), in altri casi sono state invece avanzate ipotesi sul probabile utilizzo di rilievi e materiale manoscritto disponibile in loco come base per la restituzione grafica: emblematici in tal senso le incisioni delle planimetrie di palazzo Pitti e della Certosa del Galluzzo, ovvero di grandi complessi edilizi non rilevabili interamente e direttamente dai due architetti[3]. Grandjean e Famin potrebbero infatti essersi avvalsi di aiuti, ma le tempistiche e il personale a loro disposizione dovettero comunque essere limitati; più probabile un loro diretto coinvolgimento per il rilievo di singole porzioni di strutture: in vari casi infatti i due architetti sottolinano l’autonomia della loro opera indicando analiticamente le quote dei disegni restitutivi.
Nel XVIII secolo, con la fine della dinastia medicea e il passaggio di potere ai Lorena prima, e ai dominatori francesi poi, si era resa necessaria la predisposizione di strumenti utili al governo e funzionali alla sua gestione[4]: è infatti in epoca leopoldina e nel periodo napoleonico che si assiste a grandi campagne di rilievo e alla conseguente realizzazione di documentazione manoscritta inerente alla gestione di tutte le proprietà granducali, sia in città che nei principali centri della regione[5]. È ad esempio il caso della reggia di Pitti, che solo a partire dagli anni ’70 del Settecento inizia ad essere descritta puntualmente in una serie di disegni e planimetrie utilizzati per gestire le trasformazioni in atto nell’immobile e negli adiacenti giardini[6]; è noto infatti che esistevano nei mezzanini del palazzo numerose piante manoscritte e interi album di vario formato ad uso dagli addetti delle segreterie statali[7]: uno di tali album si è addirittura conservato fino ai nostri giorni presso la Soprintendenza Architettonica di palazzo Pitti[8], mentre altri – a seguito di complesse vicende storico-istituzionali – hanno tovato nuova collocazione presso archivi nazionali (fondi dello Scrittoio delle Regie Possessioni e dello Scrittoio delle Fortezze e Fabbriche nell’Archivio di Stato di Firenze)[9] o internazionali (fondi lorenesi di Praga e di Vienna)[10]. È dunque plausibile pensare che Grandjean e Famin si siano avvalsi dell’aiuto di architetti fiorentini che avevano accesso a tale materiale manoscritto per procedere con la realizzazione del proprio corpus grafico successivamente tradotto a stampa.
Un indizio a supporto di questa ipotesi è costituito dalla già rammentata planimetria di palazzo Pitti, dove vengono rappresentati i rondeaux perpendicolari al corpo edilizio principale secondo uno stato di fatto non corrispondente alla realtà, ma congruente con le ipotesi progettuali che in quegli anni si andavano fornendo per il completamento della piazza[11]: Luigi Zangheri ha infatti ipotizzato che l’incisione di Grandjean e Famin possa derivare da un embrionale progetto di Gaspare Maria Paoletti. Sappiamo inoltre che intorno agli anni ’90 del Settecento il maestro di Grandjean, Charles Percier, aveva avuto la possibilità di copiare i disegni di Antonio da Sangallo il giovane relativi a villa Madama e conservati presso la Galleria degli Uffizi[12], dimostrando così l’effettiva accessibilità alle fonti manoscritte e la loro diretta utilizzazione da parte di artisti stranieri.
Gli architetti fiorentini incaricati di eseguire i rilievi delle fabbriche statali erano forse gli stessi che aiutarono Grandjean e Famin nella loro opera di acquisizione del materiale iconografico, e di cui questi ultimi potrebbero aver riprodotto alcune opere. Nel testo viene ad esempio esplicitamente citato Giuseppe Manetti – ovvero uno dei protagonisti dell’architettura fiorentina del momento, allievo del Paoletti e incaricato (proprio nel 1815) del restauro della Sagrestia Nuova di Michelangelo[13] – come progettista del casino delle Cascine dell’Isola[14] (pl. LX). Quest’ultimo manufatto è interessante poiché rappresentato come un edificio a due livelli, con piano terreno bucato da una successione regolare di archi e pilastri decorati con tondi a basso rilievo, primo piano scandito da coppie di lesene inframezzate da aperture timpanate triangolari, il tutto contenuto entro un solido bugnato angolare[15], ovvero elementi che rimandano direttamente al repertorio figurativo dell’architettura rinascimentale esplicitata nelle restanti tavole del volume. All’interno di Architecture Toscane sono infatti riprodotti pochissimi esempi di architetture contemporanee: oltre alla palazzina reale delle Cascine troviamo un’altra architettura contemporanea fiorentina, il cosiddetto palazzo “Zanopucci” (oggi palazzo Lemonnier)[16], presentato insieme ai prospetti loggiati dell’opedale di piazza S. Maria Novella e della loggia del Pesce; sulla scelta dei pochi esempi di architettura contemporanea operata da Grandjean e Famin si dovrà ancora indagare, ma può essere avanzata una prima considerazione sull’adattabilità dei modelli rinascimentali ad una progettazione moderna, in una tradizione di lunga durata (così fortemente espressa dal mondo culturale fiorentino e recepita dai due autori), in grado di rinnovarsi e segnare la contemporaneità.
Attraverso l’analisi delle schede risulta inoltre evidente il metodo di normalizzazione messo in atto da Grandjean e Famin nella restituzione degli edifici, che non sono mai rappresentati con le loro effettive irregolarità (evidenti ad esempio nelle planimetrie che vengono costantemente uniformate negli spessori e nell’ortogonalità delle murature), ma tendono piuttosto verso una rappresentazione tipologica regolarizzata e codificata, in grado di fornire modelli condivisi e condivisibili, da diffondere tramite stampa. Gli edifici vengono infatti estrapolati dal proprio contesto e presentati come oggetti isolati, in maniera tale da costituire un repertorio concretamente utilizzabile nella progettazione contemporanea. Dal commento alle tavole è inoltre possibile evincere come le scelte di normalizzazione attuate nella rappresentazione iconografica scaturiscano da valutazioni estetiche che assegnano massima importanza alla simmetria e alla regolarità, alla purezza, alla leggerezza e alla grazia, condannando al contempo ogni eccezione: nuovamente il caso di Pitti è esplicativo della ricerca di regolarizzazione attuata mediante una precisa manomissione del reale stato dei luoghi in favore di una totale simmetria del complesso[17] o della condanna del costrutto degli ordini del cortile ammannatiano[18] in quanto esempio della ‘bizzarria’ dell’architettura del secondo Cinquecento.
Attraverso l’analisi puntuale di alcune incisioni è infine emerso come Grandjean e Famin introducano elementi di fantasia, spesso legati all’arredo statuario a decoro dell’architettura[19], o viceversa, diano testimonianza di uno stato di fatto dei luoghi oggi non più ravvisabile a causa di successive manomissioni[20]: le incisioni dell’Architecture Toscane sono infatti spesso citate negli studi specialistici sui singoli monumenti fiorentini per il loro valore di testimonianza documentaria.