LXIII. Elévation géométrale du palais Bartolini sur la place de la S.te Trinité à Florence


Pl.  63. Elévation géométrale du Palais Bartolini, sur la place de la S.te Trinité, à FlorencepGrandjean e Famin segnalano la data esatta di inizio di costruzione del palazzo nonostante questa non sia riportata né da Vasari, né dalle più note guide di Firenze pubblicate tra il XVII e l’inizio del XIX secolo. Le «bonnes peintures» segnalate riprendono le descrizioni che già Vasari («Palazzo [...] il quale è dentro molto adornato, Vasari 1568, IV, p. 611) e Bocchi-Cinelli (1677, p. 195: «Quello, ch’è dentro, è bello oltramodo») avevano scritto a proposito dell’interno del palazzo.
Le considerazioni critiche riportate da Grandjean e Famin riguardo la configurazione delle aperture del palazzo già descritte nell’edizione giuntina di Vasari, compaiono anche in Bocchi-Cinelli (1677, p. 195: «Fu questo il primo Palagio, che si facesse con architettura tanto ornata, e per beffar l’architetto, vi fu di notte appiccato filze di frasche, come alle Chiese per le feste far si vuole»); in Follini-Rastrelli (1789, VII, pp. 282-283: «Questo fu il primo Palagio che si facesse con architettura tanto ornata; e siccome le novità sogliono sempre dispiacere agli amatori delle cose antiche, vollero beffar l’Architetto, e di notte tempo vi appiccarono delle filze di frasche, come suol farli alle Chiese in tempo di festa: ma il tempo che scuopre la verità ha fatto dipoi conoscere la sua bellezza»); Filippo Baldinucci (1808, VII, p. 50: «[Baccio d’Agnolo] fece un palazzo con ornamento di finestre quadre co’ suoi frontespizj, la cui porta veniva arricchita da colonne, che reggevano l’architrave, fregio e cornice. Ma per essere quello il primo edificio in tal gusto si fabbricasse in Firenze, dovette soffrire la strida, che pur troppo le novità sogliono portarsi dietro. Si scagliarono pertanto contro Baccio tutti i Fiorentini, biasimando altamente il disegno non solamente con parole, ma eziandio e con sonetti, e con filze di frasche, appiccicate alla fabbrica, come si fa nelle feste alle chiese, per mostrare con ciò, che più somigliava a un tempio, che ad un palazzo»).

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Le indicazioni di Grandjean e Famin sulle motivazioni dell’iscrizione inserita da Baccio d’Agnolo nella porta di accesso al palazzo sono già riportate in Baldinucci (1808, p. 50: «Il povero architetto fu quasi per uscir di cervello; tuttavia parendogli di avere imitato il buono, si fece cuore, e stette saldo; anzi per ribattere con pungente satira i motteggi; che gli erano dal popolo Fiorentino lanciati, intagliò nel fregio della porta in lettere ben majuscole: Carpere promptius, quam imitari»).
Grandjean e Famin rilevano le corrette dimensione del prospetto indicando le quote del rilievo, senza disegnare lo stato effettivo della facciata. Un possibile riferimento per una sua ricostruzione “ideale” è presumibilmente fornito dall’architetto francese Pierre Adrien Pâris che negli anni ’90 del Settecento aveva disegnato il palazzo (Calafati 2015). Come la versione di Pâris anche la facciata proposta da Grandjean e Famin è idealizzata secondo vagheggiati canoni classici: sono ipotizzate statue nelle nicchie, trofei nei riquadri superiori ed iscrizioni mai esistiti. Probabilmente Grandjean e Famin leggono inoltre la descrizione del palazzo di Follini-Rastrelli e da essa traggono un possibile spunto per lo sviluppo del disegno («[Il palazzo] era in antico adorno e ripieno di vaghissime e buone statue: queste dovevano pure abbellire la facciata: ma di fuori non vi sono, e non sappiamo se dentro esistano»; Follini, Rastrelli, 1789, VII, p. 283). La mancanza di statue inserite nelle nicchie è testimoniata dalla veduta di piazza Santa Trinita incisa da Giuseppe Zocchi (1744, tav. XIV), che presenta la facciata del palazzo in scorcio, e dal disegno di Charles Percier del 1791 (cfr. Garric, Frommel in corso di pubblicazione, Fol. 66, dis. 105) raffigurante gli edifici intorno alla piazza.
A differenza di Zocchi, Pâris e Percier, Grandjean e Famin disegnano la trama dei conci lapidei che caratterizza la facciata: probabilmente intendono segnalare al lettore la preziosità del materiale con il quale il palazzo è costruito.
Come Pâris, Grandjean e Famin eliminano le crociere delle finestre, che data la particolarità della semicolonna miniaturizzata, forse ritengono troppo poco “classiche” e incomprensibili per i lettori; inoltre inseriscono sui fregi delle trabeazioni delle finestre il motto della famiglia Bartolini («Per non dormire») semplificandone l’iscrizione rispetto alla forma contratta che possiamo ancora oggi leggere.
Sotto al disegno della facciata, Grandjean e Famin inseriscono una pianta del piano terra semplificata e corretta. Non sappiamo come si presentasse l’interno del palazzo prima della sua conversione ad albergo, avvenuta negli anni ’40 dell’Ottocento (i primi rilievi che conosciamo sono quelli di Corrado Cianferoni eseguiti nel 1861; cfr. Lingohr 1997, tavole fuori testo), ma è indubbio che la muratura di destra è stata regolarizzata per far sì che la pianta divenga rettangolare e non trapezoidale come nella realtà. Inoltre sono omessi numerosi ambienti di servizio per proporre così una versione “pulita” dello spazio interno.
Oltre alla pianta Grandjean e Famin inseriscono i particolari quotati della cornice tra il primo e il secondo piano e della cornice di coronamento del palazzo. Quest’ultima, al pari delle finestre e delle nicchie, era stata particolarmente criticata per la sua imponente dimensione. Ce lo riferisce Vasari nell’edizione giuntina de Le Vite («Vero è che la cornice di tutto il palazzo riuscì, come si è detto in altro luogo, troppo grande: tuttavia l'opera è stata per altro sempre molto lodata», Vasari 1568, IV, p. 611), e successivamente Bocchi-Cinelli (1677, p. 195: «Bench’il cornicione sia stato censurato di grandea, proporzione»), Filippo Baldinucci (1808, VII, p. 50: «Egli è vero però, che Baccio non ebbe il giudizio di adattare a questo palazzo un proporzionato cornicione. Imperciocché quello, che vi pose, quantunque l’avesse egli copiato da un bel frontespizio antico, ch’era in Roma negli orti del Contestabile, e ch’ebbe poi la stessa sorte di tante altre antichità, cioè di essere demolito, non avendolo saputo con giudizio accomodare nelle proporzioni alla fabbrica, riuscì tanto male, che peggio non vi si potrebbe stare, facendo la figura medesima, come se ad un capo di un fanciullo si volesse apporre un cappellaccio di un omaccione»).